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124 milioni di persone in 51 Paesi del mondo soffrono di fame acuta

Michele Luppi

“Se ci pensiamo è davvero paradossale: viviamo in un’epoca in cui l’uomo ha sondato la profondità degli Oceani e raggiunto le vette più alte delle montagne. La tecnologia ci ha portato sulla luna e ci permette di comunicare in tempo reale da angoli opposti del mondo… eppure siamo ancora qua a parlare di fame e di migrazioni forzate. Questa è la storia. È la mia storia personale”. Scandisce queste parole con lentezza Mohamed, di fronte ad un auditorium rimasto ammutolito. Il giovane somalo, “nomade figlio di nomadi” così si definisce lui stesso, conosce bene cosa sia la migrazione e cosa sia la fame. Perché sono esperienze che ha vissuto lui stesso sulla sua pelle e che oggi, in qualità di operatore umanitario, attivo tra Somalia e Kenya, tocca tutti i giorni con mano. Mohamed A. Ahmed è il vice capo progetto della Fondazione Cesvi in Somalia e Kenya e, nei giorni scorsi era a Milano, tappa intermedia nel viaggio verso Bruxelles dove, martedì 16 ottobre, ha partecipato alla presentazione internazionale del 2018 Global Hunger Index (Indice Globale della Fame) in programma nella sede del Parlamento Europeo.

L’indice, di cui quest’anno viene pubblicato il 13° rapporto, è uno strumento che, utilizzando quattro indicatori (tasso di denutrizione, arresto di crescita nei bambini, deperimento e mortalità infantile) ci offre una fotografia della fame a livello mondiale. I dati pubblicati nel 2018 mostrano come, ancora oggi, in 51 Paesi del mondo (sui 119 presi in esame), “i livelli di fame e malnutrizione sono molto preoccupanti” e che 124 milioni di persone soffrono di fame acuta; le regioni più colpite sono l’Asia meridionale e l’Africa sub-sahariana. Complessivamente 151 milioni di minori sono affetti da arresto della crescita e 51 milioni da deperimento. Non manca qualche segnale positivo:

guardando all’evoluzione storica l’indice evidenzia un miglioramento rispetto al 2000, tuttavia non sufficiente a raggiungere l’obiettivo “Fame Zero” entro il 2030 come previsto dalle Nazioni Unite.

Tra i Paesi che hanno segnato i migliori risultati troviamo Angola, Etiopia e Ruanda insieme a Gabon, Ghana, Senegal, Sri Lanka e Bangladesh. All’estremo opposto resta particolarmente critica la situazione in Ciad, Haiti, Madagascar, Sierra Leone, Yemen e Zambia, la cui situazione è giudicata “allarmante”. Ancor peggiore la situazione in Repubblica Centrafrica, unico Paese la cui condizione relativa alla fame è definita “estremamente allarmante”. A questi si aggiungono alcuni Paesi – come Burundi, Eritrea, Somalia, Libia, Sud Sudan e Siria – in cui non è stato possibile effettuare la ricerca, ma la cui situazione, scrivono i ricercatori, è fonte di preoccupazione.

A pesare in molti contesti – ed è questo il focus dell’edizione di quest’anno – sono sempre più spesso le migrazioni forzate. Le stime più recenti dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati parlano di 68,5 milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case: tra questi 40 milioni, la parte più consistente, sono sfollati interni, 25,4 milioni sono rifugiati in altri Paesi e 3,1 milioni richiedenti asilo.

“Penso a Khadija – racconta Mohamed – giovane madre somala che vive nel campo di Dadaab nel nord del Kenya al confine con la Somalia. Quando l’ho incontrata era lì da 7 anni con i suoi sei figli, tutti nati all’interno del campo, come altre decine di migliaia di bambini. Senza adeguata assistenza sanitaria, alimentare, senza una vita dignitosa. Quale prospettiva diamo a queste persone, quali prospettiva agli sfollati che vivono a Modagiscio? (nella sola Somalia ci sono 5,8 milioni di persone bisognose di un aiuto umanitario, ndr). È possibile che non siamo in grado di superare questa situazione terribile. Incontro ogni giorno uomini e donne che vivono ogni singolo giorno pensando a come sopravvivere, questa è la loro sfida”.

La città di Dadaab nel nord del Kenya, al confine con la Somalia, è diventata nel corso degli ultimi quindici anni il simbolo della tragedia dei rifugiati: arrivata ad ospitare nei quattro campi allestiti in città fino a 500 mila persone – quasi interamente somali – ad inizio 2018 ne ospitava ancora 238 mila (dati Nazioni Unite).

“In più di un’occasione – continua il giovane operatore – mi sono trovato di fronte a due persone che avevano bisogno di essere trasferite in ospedale e un solo mezzo per poterlo fare. Un anziano da una parte e un bambino dall’altra, entrambi bisognosi di cure urgenti. Come decidere chi portare? è un dubbio morale e etico a cui nessuno dovrebbe dover rispondere”. Per Mohamed A. Ahmed è necessario agire cambiando prospettiva. “Dobbiamo riconoscere che per molti anni le nostre strategie non hanno funzionato, dobbiamo cambiare l’approccio e andare avanti. La carestia e la fame non sono qualcosa di imprevisto e deve essere la politica ad intervenire, a livello locale ed internazionale. Dobbiamo riuscire a coniugare emergenza e sviluppo puntando sulla resilienza delle comunità locali e degli stessi rifugiati. Perché sono loro i primi a sapere come migliorare la propria condizione, devono solo essere messi nelle condizioni di poterlo fare. A noi il dovere di sostenere la loro voglia di futuro”.