Roberto Repole

La Costituzione apostolica di papa Francesco “Episcopalis Communio” sul Sinodo dei vescovi è stata accolta dalla opinione pubblica con grande interesse, rimarcandone la novità fino ad indurre a pensare che si sia alle prese addirittura con una forte cesura rispetto al passato. Sarebbe sufficiente sfogliare anche solo i titoli dei giornali cartacei o on-line dei giorni passati per ricavarne una tale impressione.
Una lettura pacata e attenta del documento e il confronto con quel che ha inteso essere ed è effettivamente stato in questi decenni il Sinodo dei vescovi consente di farsi una idea più precisa, capace di mettere in luce gli indubbi elementi di novità, l’orizzonte teologico dentro cui viene collocato il Sinodo dei vescovi e, insieme, quel che rimane ancora da pensare.
Per quanto attiene agli elementi di novità essi paiono rintracciabili nella intenzione di “immergere”, per così dire, l’istituto del Sinodo dei vescovi nella più ampia e radicale sinodalità della Chiesa. Si sa come in questi anni di pontificato Francesco abbia orientato con insistenza ad una seria assunzione della sinodalità della Chiesa, di quel “camminare insieme” cioè di tutto il Popolo di Dio, nel coinvolgimento e nella corresponsabilità, pur differenziata, di tutti: ministri ordinati, religiosi e laici. Già in occasione del discorso tenuto in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, il Papa aveva detto chiaramente che esso rappresenta un “momento” ed un “luogo” della vita ecclesiale che non può essere avulso dall’ascolto e dal coinvolgimento delle Chiese locali e, in esse, di tutti i cristiani.
Ora questo medesimo aspetto viene ribadito, rilanciato ed istituzionalizzato. Di “Episcopalis communio” si deve in tal senso apprezzare il fatto che i vescovi vengano visti – come si richiama al n. 5 – quali maestri e insieme discepoli nella Chiesa. Da ciò deriva che essi sono certamente dotati di un magistero ma, al contempo, necessitano di ascoltare quanto lo Spirito dice alle Chiese ascoltando i fedeli, dotati dello stesso Spirito. Anche in questo caso viene citato un passo conciliare particolarmente caro a Francesco, quello di “Lumen gentium” 12 nel quale si afferma che “la totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il Popolo, quando “dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici”, mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale”.
Da questo “statuto” dei vescovi che sono a servizio del Popolo di Dio di cui fanno parte deriva che

il Sinodo dei vescovi deve anzitutto essere uno strumento di ascolto profondo di quanto lo Spirito dice alla Chiesa attraverso l’ascolto reciproco dei vescovi che vi prendono parte e che rappresentano in qualche modo le Chiese.

Al contempo, tale ascolto dovrà allargarsi, coinvolgendo i pastori, i religiosi e i laici delle singole Chiese, affinchè tutti possano esprimersi circa il bene della Chiesa in ordine alle diverse questioni di cui si tratta nei Sinodi. E’ particolarmente apprezzabile che per realizzare l’ascolto del Popolo di Dio si punti all’utilizzo effettivo di quegli strumenti di partecipazione della Chiesa, come il consiglio presbiterale e i consigli pastorali, che sono stati spesso svuotati di senso in questi decenni.
L’altro grande elemento di novità concerne il fatto che venga pensato anche il momento della ricaduta nel tessuto del Popolo di Dio e nella vita delle Chiese dei risultati raggiunti dal Sinodo dei vescovi, in una recezione che deve essere differenziata perché “incarnata” nelle diverse culture abitate dalla Chiesa (n. 7). Si tratta di un aspetto così significativo che all’articolo 21 si prevede pure una commissione per l’attuazione, formata da esperti. “In tal modo, si mostra che il processo sinodale – dice espressamente Francesco – ha non solo il suo punto di partenza, ma anche il suo punto di arrivo nel Popolo di Dio, sul quale devono riversarsi i doni di grazia elargiti dallo Spirito Santo per mezzo del raduno assembleare dei Pastori” (n. 7).
Se queste sono le principali novità non sfuggirà ai più come l’orizzonte teologico dentro cui viene collocato il Sinodo dei vescovi sia, appunto, quello della sinodalità della Chiesa e della collegialità episcopale.

Nel documento si evidenzia come la collegialità dei vescovi rilanciata dal Concilio Vaticano II preveda che ogni vescovo eserciti, in comunione con tutti gli altri vescovi con e sotto il Romano Pontefice, una sollecitudine per tutta la Chiesa. E’ chiaramente in questo orizzonte teologico che viene inquadrato anche l’istituto del Sinodo dei vescovi.

Nel già citato discorso tenuto in occasione del 50° anniversario della sua istituzione, il Papa aveva osato parlare della collegialità dei vescovi vissuta al Sinodo non solo come una realtà affettiva bensì talvolta anche come effettiva.
Proprio questo aspetto permane però ancora da approfondire. A partire dalla sua istituzione e secondo la dicitura di un significativo testo conciliare come “Christus Dominus” 5 il Sinodo dei vescovi è pensato non tanto come momento di esercizio della collegialità episcopale, quanto come aiuto alla potestà del Papa. Il recente documento colloca il Sinodo dei vescovi nell’orizzonte della collegialità, ma ne conferma chiaramente lo statuto di strumento a servizio del ministero del Papa.
Su questo aspetto rimane spazio per la riflessione dei teologi e dei canonisti. Ciò non toglie, però, che si possa sin d’ora recepire l’istanza di un cammino più relamente sinodale nella Chiesa e di un maggiore esercizio della collegialità episcopale.

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