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Ricevere Cristo: lo sviluppo-storico teologico

Di Don Ulderico Ceroni

DIOCESI – Prendiamo spunto dalla risposta del teologo Nicola Rosetti sul giornale diocesano “Ancoraonline.it” che risponde alle domande di un nostro amico lettore: «Qual è il modo più corretto di ricevere l’Eucaristia? In bocca o in mano? Perché qualcuno mi ha detto che è meglio riceverla in mano», per approfondire la questione sulla modalità di ricevere la comunione durante la celebrazione eucaristica … ma soprattutto cogliere il senso della celebrazione eucaristica e del suo ineffabile mistero.

Se ci guardiamo indietro vediamo come nelle prime comunità cristiane era normale ricevere il pane eucaristico, corpo di Cristo, direttamente sulle mani; al riguardo vi sono numerose testimonianze, sia nell’area orientale, sia in quella occidentale: molti Padri della Chiesa – TERTULLIANO, CIPRIANO, CIRILLO DI GERUSALEMME, BASILIO, TEODORO DI MOPSUESTIA –, diversi canoni giuridici sanciti durante sinodi e concili (il Sinodo di Costantinopoli del 629; i Sinodi delle Gallie tra VI e VII secolo; il Concilio di Auxerre avvenuto tra il 561 e il 605 …), fino alle testimonianze dell’VIII secolo di Beda il Venerabile e Giovanni Damasceno: tutti attestano la medesima diffusa tradizione.

In questi documenti si chiede sempre che il comunicarsi sulla mano avvenga con grande rispetto e devozione: pulizia delle mani per gli uomini, velo sulla mano per le donne, mani disposte a forma di croce…ed inoltre si indica la profonda attenzione da avere contro il pericolo di profanazione (da sempre tenuto di conto).
Quando nel medioevo alcune correnti teologiche misero in discussione la modalità della presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento – arrivando alcuni a definirlo come un segno vuoto che richiama solo lontanamente la realtà sostanziale del Signore presente in mezzo a noi – la reazione della comunità ecclesiale fu di sottolineare maggiormente la venerazione e l’adorazione per le Specie Eucaristiche fino ad introdurre il nuovo rito di ricevere la Comunione direttamente sulla bocca ed in ginocchio proprio per sottolinearne la grandezza della presenza reale del corpo di Cristo.

Se si domandasse a bruciapelo a tanti cristiani praticanti per quale motivo la domenica vanno in chiesa, ci si sentirebbe rispondere dai più: «per prendere Messa» o «per non perdere Messa»; qualcuno potrebbe dire: «per ascoltare Messa», «per sentire Messa», o perfino «per vedere Messa»; qualche altro aggiungerebbe timidamente: «per partecipare alla Messa»; tantissimi poi risponderebbero in coro: «per prendere l’ostia», o «per fare la comunione», o ancora «per ricevere Gesù».

Pur richiamandosi a una medesima convinzione di fede, queste risposte evidenziano sensibilità differenti. Mentre le prime due sono dettate dalla preoccupazione di ottemperare al primo dei cinque precetti generali della Chiesa – che, fino a qualche anno fa, recitava: «Udir la Messa la domenica e le altre feste comandate» –, le tre successive si rifanno a quei tempi in cui la Messa era compresa come una sacra rappresentazione cui assistere, in base a una terminologia variopinta che sussiste tuttora, nonostante gli sforzi portati avanti negli ultimi decenni per puntellarla con la nozione di “actuosa patecipatio, partecipazione attiva”. Delle ultime tre risposte diremo che la prima è quanto mai superficiale, soprattutto se, nella mente di chi la formula, il termine “ostia” si contenta della minuscola; la seconda e la terza sono indubbiamente esatte, ma rischiano di chiudersi nell’ambito del devozionale.

Per convincerci dei limiti che, in misura più o meno consistente, traspaiono da tutte queste locuzioni, diamo uno sguardo a come i Padri della Chiesa, cioè i vescovi dei primi secoli, presentavano ai fedeli l’eucaristia. Sia in Occidente che in Oriente i mistagoghi – si pensi, ad esempio, ad Ambrogio di Milano († 397) e a Cirillo di Gerusalemme († 387) – praticavano congiuntamente, proprio in rapporto all’eucaristia, due tipi di approccio.

In un primo momento si preoccupavano di attirare l’attenzione dei neofiti sulla differenza tra il sacramento dell’eucaristia e gli altri sacramenti. Mentre nel battesimo e nella crismazione a produrre l’effetto sacramentale sono, rispettivamente, l’acqua che rimane acqua e l’olio che rimane olio, invece nell’eucaristia non sono il pane e il vino a trasformarci nel corpo ecclesiale, bensì il corpo e il sangue del Signore sotto il velo del segno sacramentale. Per sottolineare tale differenza sostanziale, i mistagoghi convogliavano tutta l’attenzione del loro uditorio sulle parole istituzionali, spiegando che sono appunto quelle parole, pronunciate dal vescovo o presbitero, a produrre la reale presenza. Appellandosi alla duplice dichiarazione di Gesù nel Cenacolo, così si esprime CIRILLO DI GERUSALEMME: «Se dunque egli stesso afferma e dice a proposito del pane: “Questo è il mio corpo”, chi mai oserebbe dubitarne? E se egli stesso afferma e dice: “Questo è il mio sangue”, chi mai ne dubiterà e dirà che non è il suo sangue?» (CIRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi mistagogiche, 4,1). E AMBROGIO gli fa eco e conclude: «Hai dunque imparato che ciò che ricevi è il corpo di Cristo!» (AMBROGIO, De sacramentis, 4,20).

Quindi, in un secondo momento, i Padri della Chiesa si premuravano di ricollocare il mistero della presenza reale nel quadro dinamico della preghiera eucaristica. Per fare ciò, AMBROGIO stimolava il suo devoto uditorio con la seguente domanda: «Vuoi sapere in qual modo con le parole celesti si consacra? Prendi in considerazione quelle che sono le parole! Dice il sacerdote: …» (AMBROGIO, De sacramentis, 4,21-27). Dopo la precedente insistenza puntuale sull’efficacia delle parole del Signore per operare la consacrazione, qualcuno tra i neofiti si sarebbe potuto aspettare di sentirle enunciare subito. Invece Ambrogio rispondeva all’interrogativo che egli stesso aveva suscitato, rinviando alla preghiera eucaristica, giacché per sapere che cosa l’eucaristia è, e a cosa serve, occorre prestare attenzione alla preghiera con la quale la Chiesa la fa. Pur astenendosi dal riprodurre per intero il canone romano, Ambrogio ne evidenziava la porzione sacramentalmente operativa, quella cioè che presenta il racconto istituzionale e la successiva anamnesi come sorretti e avvolti dalle due epiclesi (= invocazione dello Spirito Santo). La prima, che è l’epiclesi per la trasformazione del pane e del vino, così recita: «Santifica, o Dio, questa offerta con la potenza della tua benedizione, e degnati di accettarla a nostro favore, in sacrificio spirituale e perfetto, perché diventi per noi il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo». In tal modo la domanda epicletica si apre sul racconto istituzionale, che racchiude, quasi uno scrigno, le parole del Signore sul pane e sul calice. Con l’ordine di iterazione (= ripetizione), che le conclude, la narrazione si dispiega a sua volta nell’anamnesi, la quale dichiara ciò che la Chiesa radunata sta facendo, cioè l’offerta del memoriale eucaristico. A questo punto interviene l’epiclesi per la trasformazione dei fedeli: «Ti supplichiamo, Dio onnipotente: fa’ che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull’altare del cielo davanti alla tua maestà divina, … come hai voluto accettare i doni di Abele,il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede e l’oblazione pura e santa di Melchìsedek, tuo sommo sacerdote ».

Per essere meglio compresa, la citazione ambrosiana, che qui si interrompe bruscamente, deve essere integrata dal seguito della preghiera che, nella tradizione recepita, chiede a Dio Padre di accogliere l’offerta del corpo sacramentale, «perché su tutti noi che partecipiamo di questo altare, comunicando al santo mistero del corpo e sangue del tuo Figlio, scenda la pienezza di ogni grazia e benedizione del cielo». È significativo notare che PASCASIO RADBERTO († 859), lontano epigono dei Padri, riesce ancora a intendere tale formulazione come una precisa richiesta per la trasformazione nostra «in un solo corpo». Di fronte all’interrogativo «perché celebriamo l’eucaristia e per chi la celebriamo?» risponde, ad esempio, l’anafora di san GIOVANNI CRISOSTOMO, dicendo che celebriamo l’eucaristia «per la sobrietà dell’anima, per la remissione dei peccati, per la comunione che si realizza ad opera del tuo santo Spirito, per il compimento del regno escatologico, per la libertà di parola nei tuoi confronti». Se vogliamo riassumere attraverso una formula comprensiva questo elenco di effetti della comunione sacramentale richiesti a Dio Padre, dobbiamo dire – come suggerisce la recensione alessandrina dell’anafora di san Basilio – che celebriamo l’eucaristia per ottenere dal Padre la trasformazione «in un solo corpo», ossia nel corpo ecclesiale, escatologico, mistico.

La stessa transustanziazione delle oblate, che è richiesta, è richiesta precisamente a questo scopo. In altre parole: la presenza reale non ci è stata data solo perché possiamo adorare Cristo sotto le specie eucaristiche; la comunione non ci è data principalmente perché possiamo incontrare e ricevere nel cuore l’amico Gesù, cui tenere per alcuni istanti fervida e affettuosa compagnia. Il Signore non ha istituito l’eucaristia in funzione dei nostri occhi che la contemplano, né delle nostre ginocchia che, piegandosi, la adorano. Egli l’ha istituita – primo et per se – in funzione delle nostre bocche che se ne nutrono. Insomma: l’ha istituita perché la mangiamo. È questo l’insegnamento autorevole dell’epiclesi eucaristica, considerata congiuntamente come supplica per la trasformazione delle oblate e supplica per la nostra trasformazione ecclesiale. Dunque, l’effetto sacramentale, la res tantum, del ricevere il pane eucaristico è la comunione e unità della Chiesa, la crescita del popolo santo di Dio, la cura di ogni fratello che è particola della Chiesa, vero corpo di Cristo donato per la salvezza del mondo. La celebrazione rituale dell’Eucaristia (la Messa) è il convito pasquale della Chiesa, nuovo popolo di Dio: la celebrazione comunitaria per eccellenza. Il pane e il vino, ricavati dai molti chicchi e dai molti acini sparsi per i campi e divenuti il corpo e il sangue del Signore, saranno mangiati e bevuti da tutti per formare l’unico corpo di Cristo animato dallo Spirito Santo (1Cor 10,16-17). In questo contesto s’inserisce e si comprende, come centrale, il tema della «partecipazione» piena, attiva, interna ed esterna dei fedeli alla Messa (cfr. SC, nn. 11.14.19.48. PNMR, n. 3). Ciò comporta, anzitutto, l’impegno a voler accettare nella propria vita l’azione preveniente salvifica di Dio, che intende crearsi un popolo sacerdotale e, inoltre, la volontà di esercitare il proprio sacerdozio comune, inserendo la propria esistenza («sacrificio spirituale») nel sacrificio di Cristo per fare di se stessi «ostie viventi gradite a Dio» (Rm 12,1-2). Questo è il supremo atto di culto in Cristo e l’alleanza definitiva! Il popolo di Dio, nato dalla Pasqua di Cristo, è santo e sacerdotale; un popolo in cammino, che cresce nella misura in cui vive nello Spirito Santo la propria intimità con colui che è l’unico liberatore e si apre nella pace all’amore verso i fratelli, le membra del corpo di lui, anch’essi segni della sua presenza. Il Concilio Vaticano II sintetizza bene tutto questo quando definisce l’Eucaristia: fonte e culmine (LG, n. 11; cfr. SC, n. 10), radice e cardine (PO, n. 6), centro e vertice (UR, n. 22; AG, n. 9) della vita della Chiesa. La celebrazione dell’Eucaristia è il momento dell’incontro tra due realtà vive: la passione di Cristo e il sacrificio spirituale della nostra vita come «unica oblazione» da presentare al Padre nello Spirito. È quindi un evento di salvezza. Ciò avviene per «via sacramentale», «in mysterio» direbbero i Padri, che è la via per la vera e fruttuosa partecipazione alla celebrazione del mistero eucaristico. La funzione dei «misteri» (sacramenti) è proprio questa: inserirci nella storia della salvezza per viverla.

Il compito dell’azione pastorale, pertanto, non deve essere rivolto anzitutto né principalmente a far «capire» il significato di questo o di quel rito in particolare o della celebrazione rituale nel suo complesso, ma di «rivelare» il nesso tra il rito e il fatto, introducendo nella realtà viva del mistero celebrato.

È la «via mistagogica», seguita dai Padri come la via maestra e che oggi andiamo faticosamente, ma fruttuosamente ricuperando (cfr. SC, n. 35). La mistagogia non è un discorso sui segni sacri o una spiegazione dottrinale di essi, e neppure una semplice esposizione dell’origine, del significato e degli effetti dei riti, anche se tutto questo dev’essere fatto. Essa è, invece, un «iniziare» a saper vedere e riconoscere, attraverso il segno, la presenza salvifica del Cristo, educando ad ascoltare, a guardare, ad agire con fede; è un «condurre quasi per mano» (SC, n. 17) alle soglie del mistero celebrato il popolo di Dio, da parte di chi ne ha «esperienza viva», perché si realizzi l’incontro personale e comunitario con il Signore. Siamo lontani dalla mistagogia, pertanto, quando ci preoccupiamo di «spiegare» i riti o di «semplificarli» e di «adattarli» senza aver fatto cogliere anzitutto, proprio attraverso la mistagogia, il nesso: «rito – fatto». Sono da denunciare senz’altro, come «strumentalizzazione» della Messa, i tentativi di trasformare la celebrazione in una «buona occasione» per una catechesi sull’Eucaristia. Risultano utili invece, in sede competente, gli approfondimenti teologico-catechistici della celebrazione. Ottima preparazione, oltre quella spirituale sempre essenziale, è la riflessione sulle dimensioni della storia della salvezza che rivivono in ogni celebrazione liturgica (cfr. SC, nn. 5-7).

La storia della salvezza è anzitutto e fondamentalmente la storia degli interventi di Dio a salvezza del suo popolo e dei popoli tutti. Ciò significa che l’accento va posto sempre sull’«azione preveniente di Dio» (dimensione «discendente o catabatica» della storia della salvezza: l’opera santificatrice del Padre mediante Cristo nello Spirito. Ciò non è semplice. Basta pensare all’eccessivo spazio dato, nella pietà preconciliare, ai «pii-sacri esercizi» e a tutti quegli atteggiamenti devoti che educano solo all’impegno dell’uomo, e alle tendenze antropologiche contemporanee che hanno suggerito, anche nel post Concilio, certe scelte pastorali che non possono essere condivise proprio perché spostano l’accento dall’azione di Dio a quella dell’uomo, come l’accentuata sottolineatura dell’aspetto conviviale dell’Eucaristia che rischia di «ridurre» la celebrazione a semplice banchetto tra amici). L’assemblea deve essere spesso invitata (cfr. Monizioni del nuovo Messale) a percepire questa «presenza» di Dio che ci santifica in Cristo e nello Spirito Santo per renderci capaci di «risposta», nel medesimo Spirito, per Cristo al Padre (dimensione «ascendente o anabatica», cultuale).

È da questa coscienza che sgorga il sincero «rendimento di grazie» a Dio che ci ha «vivificati» (creati) e «santificati» (redenti), qualunque sia la circostanza della vita in cui si celebra l’Eucaristia. Nel «rendimento di grazie» s’innesta il discorso della nostra risposta (il nostro atto di culto), non come semplice espressione verbale, sia pure sincera, ma come «presenza della nostra vita già offerta a Dio» (cfr. Rm 12,1-2).

Si comprende così quanto sia inesatto, perché parziale, definire la Messa semplicemente atto di culto se ci riferiamo unicamente alla risposta dell’assemblea cristiana. Solo quando avremo preso coscienza del contenuto dell’azione di Dio in noi saremo capaci di rendimento di grazie; contenuto ben sintetizzato nel «doppio gesto» di Cristo sul pane e sul vino (liberazione e alleanza) nella sua ultima Cena.

La liberazione è il primo dono che riceviamo; essa coinvolge «tutto l’uomo» ed in quanto tale tocca la radice del suo essere, quella religioso-spirituale: si tratta soprattutto di liberazione dal peccato. La liberazione non è fine a se stessa, ma si apre positivamente all’alleanza di comunione con Dio e con i fratelli. Siamo liberati per vivere nella comunione con Dio e con tutti, in Cristo e nello Spirito. Il fine ultimo dell’Eucaristia è, pertanto, la communio sanctorum, la comunione ecclesiale (effetto ultimo o res tantum). Tale comunione è lo «spazio umano» in cui si compie il culto perfetto in Cristo: «l’unico vero sacrificio del cristiano» (S. GIUSTINO). E ciò è specifico della fede cristiana. Sappiamo che la Chiesa apostolica ha insistito su questa specificità del culto cristiano. Esso non può non essere «spirituale», e ciò non solo per reazione al «materialismo cultuale» dell’Antico Testamento (vedi invettive dei profeti contro il culto d’Israele, ben sintetizzate nel Salmo 49 e le critiche di Cristo) e del mondo religioso pagano, ma perché il sacrificio della propria vita è il solo culto «vero», non «sostitutivo», che può essere gradito a Dio. Il rito liturgico è solo il «momento forte» del culto della vita; esso è il «momento» in cui la Chiesa inserisce il proprio sacrificio, compiuto già nella vita, nel sacrificio di Cristo, con un atto eminentemente sacerdotale. Entrano qui tutti i problemi dell’esistenza: la coerenza personale e professionale; i problemi socio-politici; il superamento di ogni divisione; il dialogo con i lontani; l’apertura al mondo intero; l’amore universale. Come potrebbero celebrare insieme, infatti, coloro che rifiutassero di condividere la vita? (Cfr. 1Cor 10,16-21). Dopo la riforma liturgica del Concilio Vaticano II, attraverso l’Istruzione “Memoriale Domini” promulgata dalla Congregazione per il culto Divino il 29 maggio 1969, la Chiesa ha lasciato alle singole Conferenze Episcopali la possibilità di richiedere la facoltà di introdurre l’uso di ricevere la Comunione sulla mano. In Italia tale prassi è stata richiesta dalla Conferenza Episcopale nel maggio 1989 ed è entrata in vigore il 3 dicembre dello stesso anno, prima domenica di Avvento. Il testo dell’Istruzione sulla Comunione eucaristica, datato 19 luglio 1989, circa la modalità di questo ulteriore modo di ricevere il pane consacrato spiega: «Particolarmente appropriato appare oggi l’uso di accedere processionalmente all’altare ricevendo in piedi, con un gesto di riverenza, le specie eucaristiche, professando con l’Amen la fede nella presenza sacramentale di Cristo. Accanto all’uso della comunione sulla lingua, la Chiesa permette di dare l’eucaristia deponendola sulla mano dei fedeli protese entrambe verso il ministro, (la sinistra sopra la destra), ad accogliere con riverenza e rispetto il corpo di Cristo.

I fedeli sono liberi di scegliere tra i due modi ammessi.

Chi la riceve sulle mani la porterà alla bocca davanti al ministro o appena spostandosi di lato per consentire al fedele che segue di avanzare. Se la comunione viene data per intenzione, sarà consentita soltanto nel primo modo» (nn. 14-15).

È importante sottolineare come ricevere la Comunione sulla mano non è un obbligo, ma una possibilità, lasciando al singolo fedele la facoltà di scegliere la modalità più confacente alla propria sensibilità spirituale.
Ed è altrettanto importante ribadire come questa duplice prassi non è prevista in tutte le nazioni, (molte delle quali permettono solo la comunione in bocca n.d.r.) ma solo in quelle in cui la Conferenza Episcopale ha richiesto ed ottenuto tale facoltà dalla Santa Sede. Il Papa ha chiesto espressamente che nelle celebrazioni da lui presiedute si distribuisca la Comunione solo sulle labbra dei fedeli; l’elevato numero dei partecipanti e le condizioni stesse del luogo della celebrazione (spesso in luoghi aperti) fanno ben comprendere l’opportunità di questa decisione.

Concludiamo richiamando come sicuramente entrambi gli usi hanno significati propri e profondi.

Di certo occorre ricevere il corpo di Cristo sempre con fede, rispetto e adorazione indipendentemente dalla specifica modalità, stando attenti ad ogni singolo frammento dell’eucaristia ed al decoro dei nostri gesti («fai delle tua mano sinistra un trono per la tua mano destra, poiché questa deve ricevere il Re» CIRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi mistagogiche, 5,21). Come sempre, la sostanza delle azioni liturgiche ci chiede di unire e fondere insieme l’interiorità dello spirito con le modalità esteriori della loro celebrazione.

Sarebbe un peccato se ai cristiani adulti del terzo millennio gli odierni mistagoghi continuassero a dispensare una formazione religiosa rudimentale, devozionale, precettistica, superficiale … che li manderebbe a ingrossare le file dei cristiani spiritualmente rozzi, costretti – loro malgrado – a contentarsi per tutta la vita dei rudimenti appresi nella loro sempre più lontana infanzia.