Marco Calvarese

Nel film “L’attimo fuggente”, Robin Williams saliva sulla cattedra e diceva ai suoi alunni, atrofizzati negli stereotipi dell’insegnamento classico, che per capire meglio le cose c’è bisogno di guardarle da angolazioni diverse, “Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva”.

Era il 1989 e oggi, quasi trent’anni dopo, ci troviamo a pensare quanto alcune volte sarebbe importante cambiare il punto di vista anche sulla migrazione per cercare di capire meglio cosa sta accadendo e, magari, stupirsi nello scoprire che le cose sono molto più semplici di come si possa immaginare.

Il Senegal è una infinita distesa di terra rossa dalla quale si forma una polvere che ti resta attaccata addosso dall’arrivo fino a qualche giorno dopo che sei andato via, anche per la scarsità di acqua che impedisce di lavarsi quando si vuole. Davanti alla capitale Dakar, nella punta più occidentale dell’Africa, l’ex colonia francese presenta immediatamente una pagina importante e dolorosa della sua storia: l’isola di Gorée, dove venivano selezionati e poi imbarcati gli schiavi da inviare in America.

Non ci sono più le catene ma sembra quasi di sentirne ancora il rumore metallico nella mente delle persone che, appena possono, cercano di evadere da una terra che, seppur sviluppata almeno in parte dal punto di vista turistico, resta priva di prospettive per la stragrande maggioranza che la popola.

Così per noi di solito il Senegal è una di quelle terre che abbiamo imparato a conoscere per la lunga serie di Ibrahima, Mamadou, Babacar, Moustapha o Mohamed che, sorridendo, hanno cercato sulle nostre strade e sulle spiagge di convincerci a comprare un accendino, una collana o altro ancora, ma senza mai che qualcuno si domandasse quale storia portassero con sé. L’unica curiosità da soddisfare è stata sempre la solita: quante mogli hai?

L’emigrazione è ancora forte e molte sono le persone che lasciano casa ed affetti in cerca di fortuna, come ha fatto Nou Mou Diallo, un giovane di 24 anni che, nel 2009, a soli 15 anni, ha iniziato il suo viaggio verso l’Europa, cosciente che in Senegal non avrebbe avuto un futuro ma inconsapevole di tutto quello che l’aspettava lontano dalla sua piccola M’bour, nel distretto di Sindia.

“Sono partito in barca e sono arrivato in Spagna, poi sono passato in Francia, sono rimasto un po’ di tempo a Parigi e alla fine sono arrivato in Italia”, il racconto del viaggio durato mesi è riassunto in poche parole da Nou Mou Diallo che, con una certa padronanza con l’italiano, acquisita grazie agli studi effettuati durante i 7 anni di permanenza nello stivale – dove ha ottenuto anche la licenza media – parla anche del tentativo di lavorare a Parigi per qualche mese, dell’arrivo a Milano da dove è andato via per non restare tutto il giorno senza fare nulla, fino all’arrivo a Pescara dove ha iniziato a cercare di guadagnare qualcosa vendendo “le cose per strada”.

“Non conoscevo regole e leggi italiane”, confessa, ricordando bene anche il giorno in cui i Carabinieri lo hanno fermato mentre vendeva per strada, “mi sono spaventato perché pensavo che mi riportassero in Senegal. Invece mi hanno portato in Comune, poi da lì affidato ad una casa famiglia”.

Un’opportunità per l’allora ancora minorenne senegalese che è stato aiutato a fare i documenti, ha potuto studiare e iniziare a lavorare onestamente, seppur solo con lavori stagionali che andavano dalla ricezione turistica balneare, fino al lavoro nei campi per la vendemmia, la raccolta delle olive ed altro ancora.

Ma Nou Mou Diallo a questo punto inverte la rotta e torna a casa:

“Ho deciso di tornare in Senegal perché non avevo la fortuna di avere un lavoro fisso e i lavori stagionali o nei campi, non mi bastavano per restare in Italia. Non volevo fare quello che fanno altri miei connazionali, cioè vendere alcune cose che non mi piacciono”.

Così, mentre guadagnava e risparmiava soldi da inviare a casa in Africa, il giovane aveva già un progetto ben preciso in mente: “Sono tornato per investire qui in Senegal con i miei risparmi e con un prestito che mi ha concesso la banca. Ho costruito una casa e affitto delle stanze”.

Una storia nella quale si potrebbero riconoscere molti senegalesi in Italia che, al 1° gennaio 2018 (dati Istat), nel nostro Paese sono 105.937, di cui 78.537 uomini e 27.400 donne. Eppure sono solo una parte del fenomeno che contraddistingue quella zona dell’Africa dalla quale ogni giorno emigrano 55 persone (stime 2018 del World Population Review basato sui dati delle Nazioni Unite) soprattutto uomini tra i 30 e i 50 anni senza un titolo di studio o con un livello di istruzione molto basso, in maggioranza occupati nel loro Paese nella coltivazione della terra (rapporto 2017 “Perché non restare?”).

L’emigrazione dal Senegal verso l’Europa è divenuta un fenomeno dopo la crisi economica degli anni ’80 ed in particolare dal 1994, quando tutti i Paesi dell’Africa francofona hanno risentito della svalutazione del franco francese.

Nonostante questo, però, il Senegal, al contrario dell’Italia, è un Paese in crescita secondo le proiezioni che si basano sul tasso di crescita annuale che è del 2,80%.

“Dobbiamo sensibilizzare i bambini perché credano in loro stessi e costruiscano il loro Paese. Studiando, possono riuscire a costruire progetti che riescano ad offrire qui quello che adesso, anche alcuni dei loro genitori cercano fuori dai confini”, spiega Doynekhfall Sarr, insegnante di scuola primaria a Sindia e mamma che accudisce i suoi figli da sola, dato che suo marito si trova in Italia per lavorare. “Ci sono alcune persone che stanno già tornando perché si accorgono della difficoltà nel raggiungere l’Italia, alcuni sono anche morti – conclude -. Tutti quelli che emigrano hanno molte difficoltà qui e decidono di partire per poter aiutare le loro famiglie. Se avessero un progetto resterebbero qui e lavorerebbero per avere la loro dignità e restare affianco alla loro famiglia che è la cosa più bella che una persona possa desiderare”.

“L’immigrazione clandestina nei vostri Paesi sta causando tanti morti in mare, tanti giovani perdono la vita. Come voi anche noi siamo preoccupati e non vogliamo questa cosa ma non possiamo risolverla da soli, c’è bisogno che tanti Paesi si uniscano”, commenta Ibrahima Seck, il capovillaggio di Sindia che, come tutti i suoi omologhi senegalesi, rappresenta un’autorità superiore anche al sindaco, visto che viene incaricato dal popolo e il suo ruolo è quello di curare soprattutto la sicurezza e l’armonia del villaggio, mediando tra le parti prima di ricorrere alle autorità per cercare di risolvere liti o problemi. La ricetta, anche per lui, è chiara:

“Dobbiamo creare le condizioni perché i giovani restino. In Africa ci sono tante possibilità”.

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