Di Michele Luppi

“Nonostante le mille incertezze l’atmosfera in città è leggermente più distesa che in passato: ‘Dio è grande’ e ‘Se Dio vuole, ci sarà la pace’, sono le frasi sulla bocca di tutti, dei cristiani e della minoranza musulmana”. C’è speranza tra le strade di Wau, seconda città del Sud Sudan, a pochi giorni dalla firma di un nuovo accordo di pace tra i due grandi rivali – il presidente sud sudanese Salva Kiir e l’ex vice-presidente Reik Machar – che, dal dicembre 2013, hanno trascinato il più giovane stato dell’Africa, nato nel 2011, in una guerra civile costata la vita a decine di migliaia di persone e responsabile di aver causato 1,7 milioni di sfollati all’interno del Paese e 2,4 milioni rifugiati nei Paesi vicini. Una fiducia che resiste nonostante le cronache raccontino di una tregua già rotta poche ore dopo la sua entrata in vigore da nuovi scontri.

A raccontare al Sir il clima che si respira nel Paese è Matteo Perotti, missionario laico: “La povera gente a Wau come nelle altre parti del Paese, è del tutto impotente. Assiste a questi eventi stando come alla finestra. I milioni di persone che hanno perso tutto nei quattro anni di guerra civile non possono fare altro che sperare che sia la volta buona, anche se molti ricordano che questo è l’ennesimo cessate-il-fuoco degli ultimi anni”.

Salva Kiir e il suo rivale Riek Machar si sono incontrati mercoledì 27 giugno a Karthoum in Sudan per la firma dell’accordo di pace dopo il fallimento del precedente dell’agosto 2015. La foto scattata al termine dell’incontro li vede festanti, con le mani alzate, insieme ai due padrini politici di questa intesa: il presidente dell’Uganda Museveni e quello del Sudan al-Bashir. Una presenza e un luogo non casuali: la firma rientra all’interno di un percorso di riavvicinamento tra Juba e Khartoum, rivali di un’altra lunga guerra, quella per l’indipendenza del Sud Sudan, che potrebbe rappresentare un elemento centrale per la tenuta della pace. Nei giorni scorsi i governi di Sudan e Sud Sudan hanno annunciato la volontà di riaprire quattro valichi tra i due Paesi chiusi da anni. Una notizia che potrebbe avere importanti conseguenze economiche e favorire l’arrivo di prodotti nelle zone di confine difficilmente raggiungibili da sud.

Spiragli che non convincono fino in fondo chi in Sud Sudan vive da anni.

“La foto della firma dell’Accordo di Khartoum – spiega suor Elena Balatti, missionaria comboniana a Juba – è per il pubblico sud sudanese un déjà vu, una scena che ricorda analoghi flash dei fotografi per l’accordo del 2015 che non venne mai rispettato e crollò definitivamente un anno dopo durante un sanguinoso combattimento al palazzo presidenziale fra le guardie di Salva Kiir e quelle di Riek Machar”.

A pesare sono anche gli interessi economici legati allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi del Sud Sudan da sempre motivo di attrito con il vicino Sudan che controlla gli oleodotti necessari a portare il greggio dall’entroterra ai porti sul Mar Rosso. “Che l’accordo sia stato raggiunto a Khartoum non manca di suscitare sospetti fra molti sud sudanesi. Ho chiesto a una signora che conosco se Omar al-Bashir possa portare la pace al Sud Sudan e la sua risposta è stata un diniego quasi immediato”, ricorda suor Balatti.

Un ruolo importante è stato giocato dal Consiglio ecumenico delle Chiese di cui la Chiesa cattolica è membro in Sud Sudan. “In questi mesi – continua suor Elena – il Consiglio si è adoperato per mediare fra le parti. A loro va il credito di aver disteso l’atmosfera fra i delegati dei vari partiti interessati che annovera ormai un folto gruppo di altri politici e capi militari”.

Il coinvolgimento di tutte le parti in causa è uno dei nodi più difficili da risolvere in un Paese dove sono decine le milizie ancora in armi. “Un accordo di pace duraturo deve essere molto più inclusivo e non limitarsi ai soli due leader”, spiega Perotti.

La conseguenza è un clima di instabilità generalizzato che si trascina da anni con conseguenze devastanti sul piano umanitario. “In moltissime parti del Paese compresi i territori attorno a Wau – conclude il missionario – la gente non ha più osato coltivare la terra perché è troppo rischioso, così anche questa stagione delle piogge non sarà sfruttata per alleviare la fame della popolazione. Quasi tutto il budget statale è utilizzato per spese militari e i dipendenti pubblici vengono pagati con il contagocce. L’economia di una nazione già povera è al collasso e tanti piccoli commercianti e artigiani sono falliti a causa della contrazione del mercato. Ma l’effetto più evidente, quello che lascerà il segno più duraturo nel tessuto sociale multietnico di questo Paese, è il venir meno della fiducia fra gli individui. Da quando è iniziata la guerra civile ognuno vede l’altro, il membro di un gruppo etnico diverso, con sospetto e come un potenziale nemico”.

Dunque “niente illusioni fra la gente – chiosa suor Elena – però nessuno vuole chiudere la porta alla speranza che questa sia la ‘volta buona’”.

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