Bruno Desidera

Era ampiamente previsto: Iván Duque, del Centro democratico, a capo di un’alleanza conservatrice e contraria agli accordi di pace con le Farc, è il nuovo presidente della Colombia. Domenica nel ballottaggio ha battuto Gustavo Petro, candidato della sinistra, a capo della lista “Colombia Humana”. Una vittoria netta ma non schiacciante, quella di Duque, che ha ottenuto il 54% dei voti (per un totale di circa 10 milioni e 300mila voti), contro il 41,8% di Gustavo Petro (circa 8 milioni di voti) e il 4,2% di schede bianche (che in Colombia vengono comunque contate in percentuale). Duque trionfa nel cuore del Paese, lungo le cordigliere. Petro vince invece a Bogotá, lungo la Costa pacifica, nel Sud del Paese. E per la prima volta nella storia della politica colombiana la sinistra ottiene un consenso superiore al 40%: insomma, una sconfitta in agrodolce. Ha votato il 53% dell’elettorato, più o meno come al primo turno. Per le abitudini colombiane è un’affluenza elevata.

Passo in avanti per la democrazia. “Sia chiaro – spiega da Bogotá Dimitri Endrizzi, docente di Scienze politiche all’Universidad Católica de Colombia -. Il tema dell’accordo tra Governo e Farc non è stato il principale motivo della vittoria di Duque. Il nuovo presidente è espressione dell’uribismo, che resta una realtà profondamente radicata nel Paese, soprattutto nei piccoli centri, tra la popolazione con minor grado di istruzione e priva di spirito critico. Non si deve poi dimenticare che fenomeni come la corruzione e la compravendita dei voti sono ancora ben presenti in Colombia. Stavolta pare che un voto ‘costasse’ circa 40 euro, il doppio rispetto al solito”. Endrizzi vede però aspetti positivi in questa campagna elettorale: “E’ stata la prima vera campagna cui ho assistito qui in Colombia, dove vivo da 13 anni.

I due avversari avevano idee e proposte diverse e le hanno presentate, si sono rispettati e non ci sono stati eccessi o colpi bassi”.

“Sì, queste elezioni costituiscono un passo in avanti per la democrazia in Colombia – afferma Cristian Rojas, direttore del programma di Scienze politiche all’Università de la Sabana di Bogotá -. La polarizzazione che si è creata è dovuta al confronto tra destra e sinistra, era la prima volta che accadeva in Colombia, anche se bisogna dire che c’era stata una grossa polarizzazione anche quattro anni fa, tra Santos e Uribe, poi proseguita nel plebiscito per la pace. In queste elezioni c’è stato da una parte un volto nuovo, fresco, come Duque che ha dato nuovo smalto all’uribismo. Dall’altra parte la sinistra è riuscita a mobilitare il suo elettorato”. Il confronto elettorale si è deciso, secondo Rojas, sul processo di pace, “anche se quello resta un tema importante”, ma soprattutto “sulla sicurezza, sulla libertà di iniziativa privata. E poi sull’elettorato ha fatto presa la situazione del vicino Venezuela”.

Pace, futuro incerto. La pace resta, comunque, il punto centrale per il futuro della Colombia. E la vittoria di Duque lascia non pochi punti interrogativi. Su questo aspetto la valutazione dei due politologi è divergente. Afferma Endrizzi:

“Duque ha detto in campagna elettorale che cambierà l’accordo. Cosa farà e in che modo non si sa, non l’ha mai detto.

Qui a Bogotá la gente è preoccupata, l’implementazione è finora andata avanti molto lentamente, la dissidenza delle Farc si sta rafforzando. E l’incertezza ferma i progetti, i finanziamenti internazionali, ad esempio la Norgevia ha bloccato tutto. E poi c’è l’altra guerriglia, l’Eln. Il nuovo presidente ha già detto che chiuderà il tavolo di pace aperto a L’Avana”. “Io non penso che si debba essere preoccupati – dice invece Rojas -. L’accordo sarà mantenuto, le Farc non torneranno nella selva. Questo non vuol dire che in Colombia non ci sia violenza, dato che questo fenomeno nel Paese è multifattoriale. Duque ha detto che non distruggerà l’accordo, ma che intende modificare qualche punto controverso, come quello sulla giustizia”.

La Chiesa colombiana: “Non si può tornare indietro”. In queste ore la Chiesa colombiana è preoccupata di sottolineare l’importanza che l’accordo di pace venga applicato. E che non si abbandoni il tavolo dell’Avana con l’Eln. Lo spiega chiaramente, interpellato dal Sir, mons. Héctor Fabio Henao, direttore del Segretariato Caritas pastorale sociale della Chiesa colombiana e presidente del Comitato nazionale del Consiglio nazionale della pace:

“Il processo di pace deve continuare, la guerriglia è ormai smobilitata e l’implementazione è giunta a una fase molto avanzata, non si può tornare indietro.

Se poi, da parte del nuovo presidente, ci saranno delle proposte, bisognerà che il Governo e le Farc si siedano attorno a un tavolo, si parlino e che giungano a un accordo”. Aggiunge mons. Henao: “Anche recentemente ho parlato con alcuni esponenti delle Farc. E mi hanno detto chiaramente che sono disponibili a dialogare, non a rinegoziare tutto da capo”.
Centrale resta, poi, il dialogo con l’altra guerriglia dell’Eln, che procede con lentezza all’Avana. Duque in campagna elettorale ha più volte affermato di voler chiudere il tavolo. “Si tratterebbe di una disillusione per le comunità rurali, tra le quali questo dialogo ha creato grandi aspettative. Il Governo dovrà ascoltare queste comunità”.
Mons. Henao, inoltre, insiste sull’urgenza di una presenza del Governo più incisiva sul territorio, “per lottare contro il narcotraffico e le miniere illegali, per dare corpo a politiche sociali che possano eliminare quelle che sono le cause all’origine della violenza. Occorre tutelare i leader sociali, e poi resta una grande sfida da vincere, quella contro la corruzione”.

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