Daniele Rocchi

Ludopatie, gioco d’azzardo, dipendenze da alcool e droghe, abuso di psico-farmaci: sono solo alcuni dei problemi che raffigurano lo specchio del disagio sociale del post terremoto de L’Aquila, a nove anni da quel 6 aprile 2009, quando alle 3.32, una scossa di 5.8 gradi Richter devastò il capoluogo abruzzese e parte della regione, provocando 309 morti, 1600 feriti e oltre 65 mila sfollati. Oggi a vegliare sulla ricostruzione, non ancora terminata, sono decine di gru che si ergono alte sui tetti della città, mentre sulle strade camion, furgoni e mezzi pesanti trasportano materiale e operai che parlano dialetti di tutta Italia, come le ditte per le quali lavorano. Gli edifici in costruzione sono tanti, “ancora troppi” come si sente spesso dire in giro a L’Aquila. La vita di un tempo si è trasferita nelle “new town”, le cittadelle antisismiche edificate intorno alla periferia della città e nei centri limitrofi come Roio, Coppito, Preturo, Sassa, Bazzano fino a Montereale, per contenere l’emergenza abitativa provocata dal sisma e per evitare il conseguente spopolamento.

foto SIR/Marco Calvarese

Il tessuto sociale si è frammentato, indebolito dal senso di precarietà, complice anche la mancanza di spazi comuni e di aggregazione e soprattutto di lavoro. Secondo dati aggiornati della Cna (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa) della provincia de L’Aquila “il sisma del 2009 non ha prodotto alcun beneficio economico e occupazionale alle imprese locali come testimoniano le 504 cancellazioni del 2017 a fronte di 344 nuove iscrizioni, con un saldo negativo di meno 160 aziende”.

Il terremoto non si sta rivelando un traino per l’economia locale vale a dire per l’indotto che ruota intorno ai cantieri della ricostruzione. Esauriti anche i benefici fiscali: la popolazione lo scorso 16 aprile è scesa in piazza a L’Aquila per manifestare contro la notifica di 350 cartelle esattoriali ad altrettante imprese con le quali la Commissione europea intende chiedere la restituzione delle tasse sospese nel cratere del sisma del 2009 perché giudicate “aiuti di Stato”.

Numeri impietosi. In questo mutato contesto sociale aumentano le richieste di cure per dipendenze come droga, alcool, gioco d’azzardo: 94 persone in più, rispetto all’anno precedente, sono state prese in carico nel 2017 dal SerD della Asl de L’Aquila per dipendenza da droga, alcol e gioco d’azzardo. Il numero più alto, dal sisma ad oggi, che mostra un disagio sempre più diffuso che molti cercano di scacciare con eroina, cannabinoidi e cocaina. Il consumo dei primi alcoolici si attesta intorno agli 11 anni di età. Cresciuto negli ultimi 6 anni anche il gioco d’azzardo patologico con giocatori che vanno dai 28 ai 71 anni, l’età più colpita è quella compresa tra i 30 e i 34 anni. Si fanno strada anche fenomeni di tipo depressivo o di tristezza rassegnata che hanno provocato un’accentuata crescita dell’uso di psicofarmaci.

foto SIR/Marco Calvarese

“Drammi sociali”. Sono i “drammi sociali” che fotografano il volto nascosto del sisma che, spiega l’arcivescovo de L’Aquila, mons. Giuseppe Petrocchi, “solo poche voci cercano di raccontare.

Il terremoto non è solo guasto murario. Esso ha devastato anche l’anima,

provocando fratture nella mente, nel cuore, nelle relazioni, nelle attività sociali. Sono state spezzate tradizioni collaudate da secoli con relativa perdita di legami affettivi e di spazi tradizionali di aggregazione che ospitavano consolidate abitudini religiose e sociali. Ne derivano collassi sociali con tutta una serie di sofferenze e patologie che devono essere avvicinate con immenso rispetto e aiutate con una prossimità fattiva. Questi fenomeni, evidenziati dalla Asl e studiati scientificamente dall’Università de L’Aquila, sono molto diffusi.

Il disagio è avvertito ma la risposta non è proporzionata.

Basti pensare – dice il presule – ai minorenni dipendenti da droga e alcool. Sono ragazzi sfiduciati perché nati in condizioni di precarietà, vissuti in queste new town che ora mostrano provvisorietà e inadeguatezze. A me pare che l’attenzione al terremoto venga riservata – anche comprensibilmente vista l’urgenza – in misura quasi esclusiva alla ricostruzione strutturale. Quella morale non va di pari passo con quella materiale che può vantare maggiore disponibilità di risorse”.

Dopo nove anni il terremoto continua con questi “sciami problematici” che allungano la lista delle vittime: “ufficialmente ne sono state conteggiate 309 ma sacerdoti, medici e amministratori mi hanno riferito che – nei periodi successivi al terremoto – molte persone, soprattutto anziane, sono decedute per infarto, per tumore o per malattie riconducibili a sindromi cardiovascolari o a drastiche diminuzioni delle difese immunitarie, causate da forte stress. Questo triste esito viene interpretato, da diversi clinici, come un atteggiamento di ‘congedo anticipato’ dalla vita. La tristezza del momento in cui si vive attiva questo congedo”.

Risposta e proposta. “Sono fenomeni che si tende a rimuovere anche perché imbarazzanti – ammette mons. Petrocchi -. Il sisma chiede alla comunità sociale ed ecclesiale la messa in campo di valori, persone, organismi operativi in grado di rispondere a domande che spesso non vengono fatte in modo esplicito rimanendo un ‘grido silenzioso’. Ci sono, infatti, dei dolori che non si riesce a metabolizzare subito. Riuscire a parlarne significa averli accettati e rielaborati. Spesso, però, la persona avverte la sofferenza come un malessere pervasivo a cui non sa dare nome e per cui non sa trovare la causa”. Per l’arcivescovo “la comunità cristiana deve essere in prima linea nelle opere di misericordia spirituale. La Chiesa locale, che pure vive questo tragico evento, non è del tutto preparata ad affrontare questi bisogni.

Non abbiamo formule certificate ma con tanti preti, parroci e laici cerchiamo di stare sul posto e di essere vicino alla gente.

Questa è la prima forma di aiuto che va integrata con il sostegno di altre Chiese, attivando sinergie di mezzi, competenze e patrimoni esperienziali e cognitivi diversi”. Da qui la proposta dell’arcivescovo di

creare, “a un livello ecclesiale allargato, una sorta di task force ‘emergenza terremoto’ che metta insieme vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici, aggregazioni ecclesiali e organismi competenti che hanno già avuto esperienza del sisma e perciò capaci di trattarne le ferite nascoste. Come dire, progettare in sinergia: diagnosi del problema e prospetto terapico”.

Un “noi allargato”. “Non basta dire ‘L’Aquila non morirà’, e neppure limitarsi ad affermare che rivivrà ‘così com’era’.

Per ridare a L’Aquila il suo volto splendido e accogliente si richiede la costruzione di un ‘noi allargato’,

che pensa al plurale e si protende, con tenacia, verso il bene comune”. Ciò che l’arcivescovo evoca è un passaggio da “interventi realizzati uno accanto all’altro a interventi convergenti. E qui all’Aquila questo sta avvenendo in modo non sufficiente. Non ci si improvvisa tessitori di comunione: serve una cultura previa che favorisca la produzione di tali forme di coordinamento e di cooperazione. Serve una capacità di lettura dei fatti che risiede solo in un ‘noi’ ecclesiale e sociale che nasce dal sapere che ci apparteniamo e che siamo chiamati ad adempire ad un’unica missione”.

“L’Aquila deve risorgere ma non è scontato che risorga. Dipende dagli aquilani nella misura in cui sapranno dire ‘noi’ in modo coeso e fattivo – ribadisce mons. Petrocchi -. Diversamente avremo una ricostituzione della città così come era ma senza che il dramma del terremoto abbia prodotto un abbondante fiotto di vita nuova. Se ciò non avvenisse la sofferenza che stiamo provando da quel giorno sarebbe stata in gran parte vana”.

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