La depressione è davvero “una brutta bestia”, una vera e propria malattia che provoca tristezza persistente, perdita di interesse nelle attività che normalmente piacciono e l’incapacità di svolgere le attività quotidiane. Perciò l’agenzia delle Nazioni Unite per la salute la inquadra come principale causa di disabilità nel mondo. In Europa, in base ai più recenti dati Eurostat, ben il 6,8% della popolazione adulta (18 anni e oltre) è depressa. E, fra questi soggetti, il 2,9% afferma di esserlo con una sintomatologia importante. In fenomeno, peraltro, appare in aumento. Tra i singoli paesi, è l’Ungheria a detenere il triste primato di adulti depressi (10,5%), seguita dal Portogallo (10,4%) e dalla Svezia (9,0%). Il minor tasso di depressi si registra invece nella Repubblica Ceca (3,2%) e in Slovacchia (3,5%). L’Italia occupa la parte bassa della classifica, con un tasso di popolazione adulta depressa del 4,3 %.
Ce n’è abbastanza perché la ricerca scientifica sia sempre più sollecitata a trovare rimedi e soluzioni a questa sfavorevole condizione patologica. In questa direzione, un recente studio (pubblicato su “Cell”), realizzato da un gruppo di ricercatori della Duke University, a Durham, nella Carolina del Nord (Usa), ha potuto stabilire che esiste un rapporto fra attività cerebrale e depressione. La conclusione emerge da una serie di esperimenti condotti su topi da laboratorio, che costituiscono la premessa per avviare studi analoghi anche sull’essere umano.
Da dove nasce uno stato depressivo? Ognuno di noi, in alcuni frangenti della vita, sperimenta situazioni stressanti, che possono causare emozioni negative come dolore, tristezza, ansia o rabbia. Normalmente, però, di fronte a ciò, la maggior parte delle persone riesce a reagire in tempi relativamente rapidi, tornando allo stato d’animo precedente (un meccanismo che gli psicologi chiamano “resilienza allo stress”). Ma chi non ci riesce, può cadere in uno stato di depressione o di ansia.
Negli ultimi decenni, la ricerca in questo settore – potendo avvalersi di sofisticate tecniche di imaging cerebrale – ha evidenziato come lo sviluppo di disturbi mentali sia accompagnato da variazioni nell’attività di singole regioni del cervello. In particolare, il team di studiosi della Duke University, coordinato da Kafui Dzirasa e Miguel Nicolelis, ha sviluppato una tecnica che permette di monitorare l’attività elettrica in molte aree cerebrali contemporaneamente; ciò consente di evidenziare anche le variazioni nelle comunicazioni fra di esse. Applicando questo metodo ai loro esperimenti, i ricercatori hanno dunque misurato l’attività cerebrale dei topi in sette diverse regioni coinvolte nella depressione (tra cui corteccia prefrontale, amigdala e ippocampo). Per indurre negli animali uno stato depressivo, li si è collocati per dieci giorni in una gabbia con un topo più grosso e aggressivo, mentre le misurazioni sono state rilevate prima e dopo questa esperienza stressante. Al termine di essa, alcuni esemplari hanno sviluppato sintomi simili a quelli che si riscontrano nella depressione umana, come ansia, evitamento sociale e difficoltà a dormire.
L’utilizzo di un software che sfrutta l’intelligenza artificiale ha poi permesso di analizzare l’attività cerebrale dei roditori, mettendo in evidenza come negli esemplari che avevano sviluppato sintomi depressivi, questa seguiva modelli diversi da quelli riscontrati nei roditori più “resilienti”; tale differenza è stata riscontrata sia dopo l’esperienza stressante, sia – anche se in misura minore – prima di essa.
Questi risultati dunque aprono speranze per la messa a punto, anche per l’uomo, di un esame in grado di identificare in anticipo i soggetti più a rischio di depressione, oltre che aprire nuovi orizzonti terapeutici. “Ancora oggi – afferma Dzirasa – il trattamento più efficace contro la depressione è la terapia elettroconvulsivante, ma si accompagna a molti effetti collaterali. Forse, indirizzando l’elettricità al posto giusto nel modo giusto sarebbe possibile definire un trattamento con effetti collaterali decisamente più lievi”. Non possiamo che sperarlo, nel tempo più breve possibile.

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