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Chiesa, verso l’apertura dei “Cantieri” di lavoro

Alberto Baviera

A quattro mesi dalla 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani è tempo dei “Cantieri di lavoro”, attraverso i quali la Chiesa italiana vuole “proseguire e rilanciare l’individuazione e la condivisione di modelli, esperienze, buone pratiche di lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale”. A dare alcune anticipazioni del progetto è Giuseppe Notarstefano, docente di scienze economiche, aziendali e statistiche all’Università di Palermo e membro del Comitato che ha organizzato la kermesse svoltasi a fine ottobre a Cagliari.

Professore, cos’è successo in giro per l’Italia in questi mesi? Com’è stato accolto quanto proposto a Cagliari?
Il percorso del dopo-Cagliari è stato caratterizzato innanzitutto da un grande interesse da parte dei territori, nelle diocesi, nell’approfondire quanto emerso durante la 48ª Settimana sociale oltre che nel monitorare l’evoluzione delle proposte che sono state fatte sia alle Istituzioni nazionali ed europee sia rispetto a quelle che impegnavano la comunità. Simultaneamente non c’è stato un grande interesse da parte dei media rispetto alle proposte lanciate a Cagliari, nonostante la mobilitazione dei delegati.

In che cosa si è manifestato l’interesse rilevato sui territori?
Abbiamo riscontrato la voglia di capire come continuare con il metodo di Cagliari, che poi è il metodo sinodale sperimentato nel Convegno ecclesiale di Firenze. Un metodo di lavoro comune, che chiede un approfondimento metodologico.

Sul territorio sono state raccolte le 400 buone pratiche presentate a Cagliari. Un percorso che si apre ad una nuova fase…
Al cuore della proposta di Cagliari c’era l’attenzione a mappare quelle esperienze positive nella creazione del buon lavoro con il progetto dei “Cercatori di LavOro”. Ora abbiamo pensato di rilanciarla con i “Cantieri” di lavoro: l’idea è quella di strutturare stabilmente all’interno delle nostre comunità, nei territori – mettendo al centro le Commissioni di pastorale sociale e del lavoro e le realtà dell’associazionismo e del mondo cooperativo – un impegno di costante lettura e ricognizione del territorio e di costruzione di reti comuni che aiutino ad intrecciare percorsi.

Vogliamo che i “Cantieri” diventino catalizzatori di un’attenzione alle realtà che in questo momento stanno investendo in un modo generativo e inclusivo di pensare l’azienda e l’economia, attraverso un lavoro sostenibile, solidale e capace di rispettare i tempi di vita delle persone.

Come farlo?
C’è bisogno di mezzi e di accompagnamento perché sia possibile un vero approfondimento. Serviranno percorsi di formazione, strumenti di comunicazione. In più c’è la consapevolezza di quanto successo a Cagliari, un’occasione che è stata un innesco e ci ha dato un grande incoraggiamento ma che ci ha fatto anche capire che oggi la dimensione dell’essere propositivi e del guardare con speranza al futuro fa un po’ fatica a venir fuori.

A Cagliari lei aveva affermato che “in Italia esiste un giacimento di risorse che hanno bisogno di essere riconosciute come tali”. In che modo i “Cantieri” aiuteranno ad attingere a queste miniere di valore e di valori?

I beni non sono di per sé risorse. È lo sguardo, la capacità di considerarli come tali che li trasforma in risorse.

Basti l’esempio dei beni culturali e paesaggistici, beni non delocalizzabili e di cui il nostro Paese è molto ricco: hanno bisogno di essere “ri-guardati”, ripensati. Serve una mentalità generativa, imprenditoriale, innovativa che immette questi beni nel circuito virtuoso della creazione di valore. Alcuni, e ne sono testimonianza le “buone pratiche”, lo sanno fare. Ma spesso ci sono difficoltà oggettive che vanno superate: alcune le abbiamo sottolineate alle Istituzioni come la semplificazione amministrativa, l’accesso al credito, il sistema degli appalti. Però

serve anche una cultura positiva, capace di guardare con più speranza alle possibilità di sviluppo che ci sono nei nostri territori.

Questo non può non fare i conti con la disoccupazione giovanile?
Certo. Anche in questo senso l’impegno vuole essere una risposta ai tanti giovani che spesso fanno fatica ad essere incoraggiati e accompagnati.

Il rilancio del Progetto Policoro vuole confermare che la Chiesa italiana è accanto ai giovani e scommette con loro nella possibilità di crescita e di sviluppo. Anche per loro vogliamo mettere a disposizione una rete, un sistema di competenze che può aiutarli a far venir fuori quelli che sono i loro progetti d’impresa ma, soprattutto, di vita.

Per questo il tema della comunità ritorna come centrale , in un Paese attraversato da disgregazione, frammentazione, divisione tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri. Come comunità cristiana siamo uno straordinario dispositivo di accumulazione di capitale civico che serve allo sviluppo. Uno sviluppo che è vero quando si costruisce insieme. E questo necessita di persone che si spendono per il bene comune.

Che messaggio si sente di lanciare alla comunità ecclesiale?
Di riscoprirsi coraggiosa, nell’intraprendere quelle strade nuove che anche Papa Francesco ha indicato nell’Evangelii gaudium ricordandoci che il Vangelo ha un’ineludibile dimensione sociale. Il coraggio di prendere posizione, sui territori, a favore dell’uomo, della sua promozione, del suo sviluppo.

E alla comunità civile?
Chiederei di essere meno autoreferenziale guardando un po’ più in là del proprio naso e proiettandosi in una dimensione di medio-lungo periodo, che è quella propria della politica. Invece la politica si preoccupa di questioni molto piccole, di corto respiro. Va riscoperta l’arte di unire, non quella di dividere; di pensare in largo e in lungo, non di restringere il proprio ambito di azione.

La grande sfida è rimettere al centro l’inclusione attiva delle persone attraverso il lavoro, la promozione dei talenti, la rimozione degli ostacoli. Non è semplicemente il creare occupazione,ma è il creare un nuovo modello di convivenza basto sull’inclusione, che significa partecipazione, cittadinanza attiva, democrazia più autentica e significativa.