Giovanni M. Capetta

C’è un momento nella giornata di una famiglia in cui il tempo si può come fermare, riempiendosi di un senso speciale. Ė il tempo propizio della preghiera insieme prima di iniziare a mangiare. Zigzagando fra la gimkana di impegni delle nostre giornate, la cena è un territorio protetto, in cui i membri della famiglia possono essere letteralmente uno di fronte all’altro e in ascolto reciproco. In questo contesto un sovrappiù è dato dallo sforzo – col tempo una necessità – di alzare insieme lo sguardo e la voce per esprimere la più elementare delle gratitudini: quella per il pane quotidiano. Come nella Pasqua ebraica è il figlio più piccolo che domanda cos’abbia di speciale quella notte, così capita che venga spesso affidata al più piccolo della famiglia una libera forma di ringraziamento per la cena, quasi una dedica, per tutto quello che quel giorno si è vissuto. Con la libertà che è propria dei bambini, l’enunciazione spazia dalla stessa pietanza del giorno, ad un bel voto a scuola o un incontro speciale, da una delusione ad una richiesta di perdono. Dopo l’incipit del primo “antifonista” possono aggiungersi le intenzioni degli altri commensali: l’intercessione per la salute di una persona cara, una preoccupazione condivisa, un’intenzione esplicita chiesta da qualcuno. Molto spesso – e il rischio che sia per fare bella figura c’è, ma è un rischio da correre – la preghiera è più curata quando c’è un ospite a tavola: di solito si prega perché costui si senta a suo agio, che è poi la prima forma di accoglienza. Questo brevissimo spazio – che spesso “salta”, oppure è infilzato di interferenze come le frecce di un San Sebastiano – ci rende veri nell’affidarci a Qualcuno che non si scorda ciò di cui abbiamo bisogno. In quel momento siamo solo noi e un Tu: non c’è bisogno di wi-fi, non bisogna ricordare niente a memoria, basta essere sinceri. In alcune sere di particolare stanchezza, questo momento si riduce a pochi istanti di silenzio – possibilmente fermi, senza fare niente nel frattempo, neanche mettere il formaggio o stappare una bottiglia. In silenzio insieme ed è lo stesso un “grazie” eloquente. Questo atto di riconoscenza non richiede necessariamente di aderire all’invito fatto da Gesù con la preghiera al Padre che lui stesso ci ha insegnato… ma, ha una sua radice ancora precedente, iscritta nel nostro essere creature bisognose di cure, prime fra tutte il sostentamento. Se, quindi, all’interno delle mura domestiche la preghiera assume i tratti più squisitamente cristiani che la fanno riconoscere come frutto della fede, forse potremmo cercare una più ampia condivisione di questa dimensione di gratuità fra tutti coloro che non si sentono autosufficienti su questa terra. Bella testimonianza fare il segno di croce prima di sfamarsi quando si è in ambienti pubblici come nelle mense aziendali, nei bar e nei ristoranti fuori dall’ufficio, ma perché non trovare anche il modo di dire insieme a chi ci sta vicino un semplice “Grazie” per il cibo di quel giorno?

Entra a far parte della Community de L'Ancora (clicca qui) attraverso la quale potrai ricevere le notizie più importanti ed essere aggiornati, in tempo reale, sui prossimi appuntamenti che ti aspettano in Diocesi.

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *