M.Michela Nicolais

All’indomani del messaggio del Papa, in cui Francesco mette in guardia dai “falsi profeti” ed esorta a contrastare “il dilagare dell’iniquità”,  fratel MichaelDavide Semeraro, monaco benedettino, propone di vivere la Quaresima come tempo di “incremento di umanità”, non solo per i credenti. E rivela: “in ogni donna e in ogni uomo si nasconde un povero che attende di essere scoperto”.

Preghiera, digiuno ed elemosina sono le tre pratiche quaresimali. Come attualizzarle oggi, in una società che sembra lasciare sempre meno spazio al silenzio e all’attenzione all’altro?
Preghiera, elemosina e digiuno sono tre pratiche che non hanno tempo. Non sono fuori tempo, in quanto esprimono un’esperienza non eminentemente di Chiesa, ma sono legate alla storia della civiltà umana. Esprimono nell’uomo di ogni tempo un aspetto che ha a che fare con il senso più profondo della vita e della realtà.

Il digiuno, ad esempio, non è una forma di controllo e mortificazione, ma un attraversamento critico delle esigenze del nostro corpo per operare un discernimento di bisogni e desideri.

Questo discernimento, tramite le pratiche quaresimali, si dispiega in tutte le sue forme: dal cibo, alla nostra relazione con le cose e con gli altri, al rapporto tra il corpo e il tempo. La preghiera è la capacità di cui un uomo ha bisogno per uscire anche fuori della propria esperienza ed aprirsi ad un vissuto che riguarda un ambito più ampio: l’orizzonte della trascendenza. La capacità di essere attenti a noi stessi, a quel groviglio di pulsioni e desideri profondi che ci caratterizza, ci rende attenti anche ad un mondo più grande. Il termine elemosina, infatti, viene da élemos, che in greco significa pietà, ma anche balsamo, e ha a che fare quindi con la compassione e la benevolenza.

Queste tre pratiche sono una forma di incremento di umanità in cui tutta l’umanità può ritrovarsi.

Per noi cristiani sono le forme classiche di impegno quaresimale che, più che ripetere, dovremmo rinnovare ogni anno, all’inizio della Quaresima, cercando di maturare sempre di più nell’attenzione a noi stessi e nell’attenzione agli altri.

Per Francesco pregare è imparare a chiamare Dio col nome di “Padre”, nutrendosi della Scrittura e dell’alfabeto della fede appreso in primo luogo col latte materno, a partire dal segno della croce. La famiglia può ancora essere una scuola di preghiera?
Può esserlo nella misura in cui, oltre ad insegnare a pregare, la famiglia diventa il luogo in cui si insegna ai più piccoli ad immaginare, e quindi a riconoscere, che c’è una presenza diversa da quella visibile. “L’essenziale è invisibile agli occhi”, diceva il Piccolo Principe. I bambini di oggi sono bombardati da tantissimi stimoli, e le famiglie devono essere capaci di insegnare ai bambini il senso dell’invisibile.

Bisogna insegnare loro a chiudere occhi ed orecchie, per imparare a sentire da dentro il proprio mondo e il mondo di fuori.

I nostri bambini sono continuamente bombardati dai moltissimi stimoli esterni e fanno fatica a distinguere l’interno dell’esterno. Imparare a sentire da dentro significa saper scorgere anche l’invisibile, nelle piccole o nelle grandi esperienze di fede, perché senza il senso della trascendenza nessuna esperienza spirituale è possibile.

Il Papa , nel messaggio per la Quaresima, auspica l’elemosina come “stile di vita”, a partire dalla concretezza della carne dell’altro. Di chi dobbiamo essere capaci di ascoltare il grido?
In Quaresima siamo chiamati innanzitutto a prendere coscienza della nostra povertà, fragilità, vulnerabilità, e del grido che portiamo dentro di noi come creature umane. Se viene veramente vissuto, tutto questo ci rende sensibili ad ogni grido dell’umanità:

in ogni donna e in ogni uomo si nasconde un povero che attende di essere scoperto.

Poi ci sono le urgenze, il dovere di solidarietà con i più poveri, ma non sarebbe possibile prenderci carico dei loro bisogni se non ci fosse una sensibilità abituale alla povertà che è dentro di noi e dentro ogni uomo e donna che incontriamo nel nostro cammino.

Quando parliamo di elemosina, non si tratta solo di un gesto per mettere a posto la nostra coscienza, ma di una relazione di “cospirazione della speranza” con tutti.

Ognuno di noi ha bisogno di un po’ di balsamo per le sue ferite. Non a caso la Quaresima comincia con il rito di imposizione delle Ceneri, dove ci viene ricordato che l’uomo è polvere, è nulla. Non per deprimerci, ma per fare appello a tutte le nostre energie e renderle polvere di stelle.

Nell’epoca dei social il digiuno, oltre alla condivisione del pane con chi non ce l’ha, è anche un digiuno mediatico. La Quaresima può essere uno stimolo per un “tempo diverso”, meno dedicato al frastuono digitale e più alle relazioni autentiche con l’altro?
In passato il digiuno toccava l’aspetto alimentare perché era un’esperienza fondamentale nella vita di tutti. Oggi è una preoccupazione che noi occidentali non abbiamo più. Digiunare vuol dire stare sempre attenti a ciò che entra dentro di noi: è vero, come dice Gesù, che non ci può contaminare, ma è anche vero che ci può rendere meno liberi, più dipendenti. Dobbiamo stare attenti a tutto ciò che entra dentro di noi attraverso la bocca, gli occhi, le orecchie. In questa prospettiva,

potremmo tradurre la parola digiuno con la parola “disciplina”,

di cui soprattutto i giovani hanno perso il significato. La disciplina ha a che fare con l’ascesi: la nostra qualità di umanità passa attraverso la reale capacità di disciplina, altrimenti si regredisce allo stadio disumano o inumano. La Quaresima può essere, allora, un’occasione per vigilare maggiormente su ciò che entra dalla nostra bocca, dai nostri occhi, dalle nostre orecchie, per guadagnare in libertà e discernimento.

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