“Non permettere che noi entriamo (e/o soccombiamo) nella tentazione”, oppure: “Non abbandonarci alla/nella tentazione”. Le moderne traduzioni della penultima supplica del Padre Nostro “si indirizzano concordemente in tal senso”. La traduzione proposta da “La Civiltà Cattolica” è invece: “Non introdurci nella prova” o “non metterci alla prova”. È quanto si legge nel quaderno di febbraio, in cui Pietro Bovati spiega la proposta di sostituire il termine “tentazione”, al centro delle versioni latine e delle versioni moderne della preghiera del Padre Nostro, con “prova”: “Mai può essere attribuita a Dio l’azione del ‘tentare’ l’uomo, perché ciò sarebbe contraddittorio con la sua natura di Padre benevolo. Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono; poi le passioni concepiscono e generano il peccato, e il peccato, una volta commesso, produce la morte”. Invece – e questa è una realtà che la tradizione biblica più volte sottolinea –, Dio “mette alla prova” l’uomo, in vari modi. Che senso ha allora chiedere a Dio: “Non metterci alla prova”? “Se la vita degli uomini, così come ce la presenta la Scrittura, è costantemente sottoposta alla prova, e se ciò rappresenta una sapiente disposizione divina per purificare le intenzioni del cuore e affinare la qualità spirituale dei giusti, come si può comprendere la petizione del Padre Nostro che apparentemente chiede il contrario?”, si chiede l’autore dell’articolo. Bisogna “interpretare correttamente il senso delle richieste rivolte a Dio”, spiega Bovati: “L’orante istruito dal Cristo non intende chiedere se non ciò che Dio vuole; il ‘sia fatta la tua volontà’ permane l’unico vero desiderio di chi invoca aiuto. Le diverse petizioni della seconda parte del Padre Nostro espongono al Padre diverse condizioni di bisogno e miseria della comunità in preghiera, non però supponendo che Dio non sia al corrente o non voglia soccorrere, bensì con l’intento di rinnovare la memoria degli aspetti e delle circostanze in cui il Padre esprime la sua benevola azione compassionevole”. “Se chiedere nella preghiera di essere esposti alla bufera del male sarebbe ovviamente un atto di orgogliosa presunzione, anche pensare di essere capaci da soli di superare le difficoltà non è atto di minore superbia”, afferma il gesuita: “Al contrario, invocare dal Padre, a ragione di un’umile consapevolezza della propria fragilità, di essere risparmiati dal fuoco della prova è un atto che Dio approva ed esaudisce. Chi avverte, come Gesù nell’orto del Getsemani, l’approssimarsi della terrificante minaccia della morte, chi prova dunque nel cuore angoscia grande, è chiamato a entrare in preghiera, e a ripetere con il Cristo: ‘Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!’”. “Se ben consideriamo le nostre preghiere spontanee, se ci domandiamo insomma che cosa chiediamo a Dio quando apriamo a lui il nostro cuore, dobbiamo constatare che ogni volta gli domandiamo di non entrare nella prova”, conclude Bovati: “Anzi, come ci invita a dire Gesù nell’ultima petizione (secondo il testo di Matteo), la preghiera al Padre chiede di essere ‘liberati dal male’. Non si tratta dunque di pregare il Padre esclusivamente per essere in grado di superare le tentazioni e vincere le seduzioni del Maligno – cosa questa senz’altro necessaria -, ma anche di supplicare il Dio buono che conceda il suo aiuto a chi è piccolo e fragile, a chi sa che ‘lo spirito è pronto, ma la carne è debole’, così da attraversare la notte senza perdersi”.

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