Gianni Borsa

“I governanti di oggi? Molti rimangono impantanati nel contingente. Non sanno guardare ‘oltre’, come facevano i padri fondatori”: Piero Graglia insegna Storia dell’integrazione europea e Storia delle relazioni internazionali all’Università degli Studi di Milano. Biografo di Altiero Spinelli, europeista convinto, è uno studioso dei processi di costruzione della “casa comune”. Dal suo osservatorio l’Unione europea in questa fase “avrebbe bisogno di più impegno e di maggior fantasia” da parte dei leader dei Paesi membri. “Invece gli Stati sono diventati parte stessa del problema Ue”. Parole decise e severe, seguite da uno sguardo prospettico che – fortunatamente – apre a nuove speranze.

Professor Graglia, da anni le nuvole si addensano sull’Europa comunitaria. Londra ha deciso di andare per la sua strada, i Paesi di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia) scalpitano, e in diverse altre nazioni, Italia compresa, fanno breccia nazionalismi e populismi anti-Ue. L’Unione è al capolinea?
Le difficoltà sono sotto gli occhi di tutti: le sfide degli ultimi anni – economia, migrazioni, terrorismo – hanno messo in luce tanti elementi critici e debolezze della stessa Unione europea. Ma io sono convinto che non siamo di fronte a una crisi irreversibile del progetto europeo, quanto piuttosto a un invecchiamento della modalità con cui i governi interpretano l’integrazione. Troppi capi di Stato e di governo trattano l’Ue come se fosse solo il mercato unico. È un’idea vecchia. Per superare l’attuale impasse occorre invece fantasia, ossia trovare risposte nuove a problemi inediti. Esattamente come fecero, sessant’anni fa, i fondatori della Cee.

Ci sarà pure qualche esempio di buona scelta politica da citare…
Di recente abbiamo visto passi in avanti sul progetto della difesa integrata. Si parla anche di unione dell’energia. Ma in altri settori restano assenti vere politiche comuni, dagli esteri alle migrazioni. Proprio la mancanza di una politica migratoria si è sentita pesantemente in questi anni, lasciando sola l’Italia e alimentando indirettamente i populismi e le fake news sui rifugiati. È vergognoso che non ci sia una solidale ripartizione dei rifugiati: siamo di fronte a un atteggiamento egoistico di molti Stati.

Dunque, cosa serve per fare dei passi avanti?
Ci vuole progettualità. Ovvero analisi della situazione, confronto politico, ricerca di soluzioni ottimali che vadano a vantaggio di tutti. Senza pensare alle prossime scadenze elettorali: quella è miopia!Se si può ben capire che l’orizzonte di un leader nazionale non vada oltre la linea elettorale nazionale, mi chiedo come facciano questi stessi leader a proporsi come “legislatori del futuro”e a lanciare nuove sfide sovranazionali. Se scelgono la dimensione nazionale come esclusiva e preminente non usino la dimensione europea per rastrellare consensi (e viceversa).

Quali sono i Paesi che “tirano il freno a mano” dell’integrazione europea? Verrebbe da pensare all’Europa centro-orientale…
Io invece dico anzitutto: la Germania. Perché il Paese più grande ed economicamente forte non sta facendo da locomotiva dell’Unione. Sta pensando soprattutto ai propri interessi. E dai governi tedeschi – negli ultimi anni quelli guidati da Angela Merkel – non sono arrivate proposte per rafforzare l’unità europea. Berlino, per fare qualche esempio, ha detto no agli eurobond, no all’aumento del budget comunitario. Non ha favorito riforme per assegnare più potere al Parlamento e alla Commissione, le due istituzioni “comunitarie” per eccellenza. E poi, certo, anche l’est europeo sta frenando. Gli ex Paesi comunisti, all’indomani del crollo del Muro di Berlino, erano interessati alla sicurezza (ovvero alla Nato) e al benessere economico (collegato ai fondi Ue). Ottenuto ciò che volevano, diversi governi stanno ostacolando ogni forma di ulteriore collaborazione politica su scala continentale.

Da dove partire per rilanciare l’Ue?
Le possibilità sono molteplici. Ma direi, in primo luogo – anche per l’attenzione dedicata dall’opinione pubblica – che è necessario smentire i luoghi comuni, le banalità, le inesattezze profuse attorno alle politiche dell’Unione. “L’Europa non serve a nulla”, si sente dire, “è solo burocrazia e divieti”. E qui il populismo ci marcia.In realtà l’Unione europea produce, in base ai trattati sottoscritti dagli Stati membri, leggi e regole che servono per la convivenza comune, per tutelare i diritti dei cittadini, per difendere i consumatori, per sostenere le imprese.Chi pensa che sarebbe meglio “tornare agli Stati nazionali”, come se questi fossero spariti dal dopoguerra ad oggi, si deve domandare: di fronte alle nuove sfide globali, cosa possono fare i singoli Paesi Ue, grandi o piccoli che siano? Ci si renderebbe conto che, oggi più di ieri, l’“unione fa la forza”. Invece imperversano gli slogan semplicistici, e falsi, che poi influenzano i risultati elettorali. È quanto accaduto in Gran Bretagna, che ora non sa come gestire il Brexit.

E poi?
Sarebbe inoltre necessario affrontare e risolvere i diversi elementi di criticità nell’Ue, che nessuno può negare. L’Unione europea è un “animale a sangue freddo”. E non scalda i cuori. Manca, all’interno delle istituzioni di Strasburgo e Bruxelles, un serio e ampio dibattito su questo aspetto. L’Europa ha bisogno di riformarsi, e in tal senso il Brexit è un utile campanello d’allarme. Ma il Parlamento europeo appare incapace di interpretare un ruolo propulsivo. Non azzarda grandi riforme come aveva fatto durante le prime due legislature, quelle del 1979 e del 1984. E la Commissione, nonostante qualche buona proposta (contenuta nei Discorsi sullo stato dell’Unione del presidente Juncker), è piegata sulla gestione del presente.

Parliamo ancora di migrazioni.
Mi pare sia necessario partire dal fatto che, per quanto imponente sia il fenomeno degli arrivi – dalle coste africane e dal Medio oriente – non siamo di fronte alla sbandierata “invasione”, come qualcuno vorrebbe farci credere. I movimenti migratori all’interno dell’Africa e dell’Asia, anche in regioni povere, hanno ben altre e preoccupanti dimensioni. Ma la questione pesa perché siamo società “paurose”, e lo siamo in quanto società benestanti. Temiamo che ci vengano sottratte le nostre certezze.Comunque una vera risposta europea avrebbe da subito reso il problema più gestibile.Inoltre il fenomeno migratorio è un’altra “spia” del fatto che l’Ue non ha una politica estera comune che farebbe dell’Europa un vero protagonista della scena internazionale. Si può forse oggi affermare che l’Unione europea, con tutto il suo peso demografico ed economico, ha una gestione pressoché unitaria della politica commerciale, ma, paradossalmente, manca di una politica estera. Un assurdo. Sarebbe come essere proprietari di una Ferrari, pagarne tasse e benzina, senza poterla guidare.

Su Brexit e Catalogna?
Il discorso è complesso. Sul divorzio deciso da Londra ho già detto: si tratta di nazionalismo e di scarsa lungimiranza. Ma ritengo che questa frattura possa spingere l’Europa a una riflessione interna. Così come avvenne, in passato, con l’euroscettica Margaret Thatcher: fu, in negativo, la “madrina” dell’Atto unico e del Trattato di Maastricht che riformarono l’Europa tra gli anni ’80 e ’90. Le stesse domande gli inglesi si sono posti con il referendum dovrebbero però farsele anche i 27: perché siamo nell’Ue? Cosa comporta la cittadinanza europea e quali vantaggi o svantaggi ne derivano? Cosa vogliamo fare e fin dove vogliamo arrivare insieme? Sulla Catalogna dico solo che la legittima richiesta di autonomia dei catalani, che peraltro è già sancita nella Costituzione, può essere garantita nel quadro dell’unità nazionale. Non c’è affatto bisogno di far nascere un nuovo staterello.

Da ultimo: un messaggio ai giovani?
Molti miei studenti affrontano con successo l’Erasmus. È un modo di “toccare con mano” l’Europa. Per comprendere il valore di un così grande progetto politico non c’è bisogno di innamorarsene: basta sperimentarne i vantaggi quotidiani. Con un po’ di enfasi potremmo dire che l’Ue è come l’aria: se c’è, non te ne accorgi, ma quando viene a mancare boccheggi. Credo che, da questo punto di vista, i giovani siano la migliore chance per il futuro dell’integrazione: l’Ue è dei Millennials, sono loro i “nativi europei”, che vivono e vivranno da europei.

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