Di Matteo Sabato

Charley Fazio (fotografo di guerra) ha realizzato insieme ai bambini siriani la mostra dal titolo “La Bellezza ritrovata” che si inaugurerà presso le sale del MIC – Museo dell’Illustrazione Comica sabato 3 febbraio alle ore 17:30

La bellezza salverà il mondo? Ce lo siamo chiesti un pomeriggio d’autunno io e Charley Fazio durante una delle conversazioni telefoniche più belle della mia storia associativa e personale. Ho incontrato Charley tramite le notizie sul web che parlano di lui e della sua “missione” (perché di questo si tratta), l’ho incontrato negli scatti che circolano in rete e che testimoniano della sua passione, e poi ho incontrato anche la sua voce, purtroppo mediata dall’auricolare di uno smartphone. Doveva essere un mero scambio di assensi per concordare un’intervista, ma è diventata invece un’intensa condivisione sul senso del nostro stare nel mondo, sui fondamenti della missionarietà, sul fatto che questa umanità, la nostra, abbia ancora tanta bellezza da raccontare. A questo “primo” scambio poi è seguita un’altra telefonata, il giorno dopo, di quelle già impostate e guidate da una pista di domande preparate per l’occasione; anche stavolta Charley ha valicato i confini delle mie aspettative regalandomi uno, anzi numerosi scatti di bellezza, come quelli che troverete tra le pieghe di questa intervista, perché la storia di Charley va gustata come si guarda la gallery più bella di Instagram.

Charley Fazio è un fotografo palermitano, forse come tanti. Se non fosse che in realtà è (o lo è stato) prima di tutto un geografo: è questo che dice la laurea appesa nel suo studio a ricordare un passato che poi passato non è: «lavoravo al petrolchimico di Siracusa, poi nel 2006 mi sono licenziato». L’avventura di Charley Fazio nel mondo della fotografia inizia così: «Mi piaceva le geologia – racconta – ma avevo dentro delle cose che dovevano ancora esplodere. Sapevo che sarebbe successo qualcosa, dovevo solo capire cosa. Mi dilettavo con le foto, ma non tanto da credere che sarebbe potuto diventare il mio lavoro, poi ho partecipato al Sony world photography awards arrivando in semifinale. Ho pensato allora di dedicarmi alla fotografia e da buon geologo sono subito andato sull’Etna per documentare le eruzioni. Poi la prima mostra grazie a uno sponsor e da lì la decisione di diventare un fotografo». Dopo un periodo in cui si è dedicato soprattutto alle foto di spettacolo, Charley inizia la sua esperienza al seguito delle Onlus. «Ho realizzato un servizio in Senegal su dei bambini abbandonati affidati a un pastore musulmano che dà loro riparo e li manda a chiedere l’elemosina per suo conto. Le foto scattate sono state vendute e il ricavato donato alle associazioni che si occupano di dare un’infanzia a questi bambini, offrendo loro un’istruzione che va oltre lo studio mnemonico del Corano». E queste foto gli sono valse l’iscrizione nella lista dei fotografi dell’Unicef. E da lì è stato un crescendo, un crescendo di passione per l’arte della fotografia e la consapevolezza che quest’arte potesse avere un ruolo sociale, un ruolo umanitario. Insieme a questa passione è cresciuto anche il bisogno di spendersi senza riserve per chi ha bisogno, i bambini in particolar modo. A lui abbiamo chiesto di raccontare la sua esperienza con i rifugiati scampati alla guerra nelle terre del Medioriente. Da quell’incontro ne è nata una mostra fotografica che ha girato il mondo e di cui si trovano decine di articoli in rete: si intitola, non a caso, La Bellezza Ritrovata, perché è il frutto dell’impegno del suo autore di trovare, o meglio di ritrovare, la bellezza laddove l’orrore sembrava volerla occultare.
Charley non vuole definirsi assolutamente un fotografo di guerra, non lo è tecnicamente. Ma come definire chi sceglie di partire e andare a incontrare quanti cercano scampo dall’orrore, dalla distruzione e dalla morte? Charley Fazio non è allora un fotografo di guerra, ma un fotografo di pace, perché ha scelto di usare la fotografia per dare voce, come afferma lui stesso, «a chi non ha la possibilità di raccontarsi da solo al mondo».

Qual è il ruolo che attribuisci alla fotografia in tutti quei contesti che potremmo definire “tragici”?
La fotografia ha una potenza che bisogna saper “gestire”; e questo soprattutto in tutte quelle situazioni come la guerra in cui proprio la fotografia può avere un potenziale pericoloso.
È proprio in questi casi che, secondo me, la fotografia può svolgere il suo ruolo di agente sensibilizzatore, può essere occasione di denuncia. Credo che oggi la fotografia abbia il compito di scuotere le coscienze, di stimolare le nostre sensibilità: non possiamo semplicemente dirci favorevoli alla pace… queste affermazioni di principio spesso nascono da una scarsa consapevolezza di ciò che avviene realmente nei luoghi in cui è in atto un conflitto; compito della fotografia è allora restituire la realtà, aprire gli occhi e il cuore ai bisogni di chi, dall’altra parte del mondo – spesso anche molto vicina a noi -, ha bisogno del nostro aiuto. Usare la fotografia per questo fine è il massimo che si possa chiedere alla vita.

È possibile scovare tracce di bellezza anche nelle situazioni, nei luoghi, nelle persone segnate dalla guerra?
È proprio in quelle situazioni prodotte dalla guerra che paradossalmente è possibile “trovare” la bellezza. La prima volta che sono arrivato in un campo profughi, ho capito fin da subito che quel posto mi avrebbe rivisto altre volte: c’era qualcosa di magnetico a cui solo in seguito sarei riuscito a dare dei contorni. Stando in mezzo a quella gente provata dalla sofferenza, da fughe spesso caratterizzate dalla paura e dallo sconforto, vivendo ogni giorno accanto a bambini apparentemente senza futuro, un giorno mi sono detto: «ma qui c’è della bellezza che va raccontata!»; la bellezza è venuta fuori da sola, man mano che sempre più mi trovavo accanto a queste persone. Bisogna fare attenzione, però, perché bisogna allenare il proprio sguardo per vederla: non a caso la mia mostra si intitola La bellezza ritrovata, perché la bellezza fa parte di tutti noi ma la guerra in qualche modo prova a soffocarla, a nasconderla e allora se abbiamo una grande sensibilità, se riusciamo a cogliere l’altro come un un’altra parte di noi, della nostra umanità, solo in quel caso riusciamo a cogliere la bellezza che gli uomini, le donne, i bambini con i loro sogni, le loro speranza, il loro desiderio di felicità sono oggi in questo mondo. Certo è una bellezza che soffre…ma noi fotografi abbiamo il dovere di farla emergere; se è perduta, allora bisogna ritrovarla, ma nel contempo custodirla: mi trovato a Lesvos, il punto di approdo dei naufraghi in fuga dalle zone di guerra in Medio Oriente; erano appena sbarcati alcuni yazidi in fuga dall’Iraq. Erano sfiniti dopo la traversata e affollavano il piazzale. Non ce l’ho fatta a puntargli l’obiettivo della macchina fotografica in faccia come un fucile in cerca di un ritratto, mi sono limitato a fare alcuni scatti senza neanche guardare, quasi di nascosto, facendo il possibile perché non se ne accorgessero, per non violare quel momento difficile. Vedevo la bellezza di quei volti, delle storie che c’erano dietro, ma in quel momento dovevo proprio per questo preservarla.

Ci racconti l’idea che hai custodito e stai provando a realizzare con il tuo lavoro? Qual è il principio che la anima? Che cosa ti ha spinto a farlo?
Una sera guardando «Tg2 – Storie» ho visto un servizio su una ragazza, una volontaria che era andata a portare beni di prima necessità in un paese colpito dalla guerra e allora mi venne l’idea di fare un reportage. Mi misi in contatto con l’associazione, dovevo partire con loro ma per vari impegni non riuscii a farlo. Nei mesi successivi, durante una mostra in Trentino, conobbi Feras Garabawy, responsabile dei progetti umanitari internazionali della onlus “Speranza – Hope for Children”, entrai in contatto con questa associazione e vidi che nel loro operato c’erano grande passione e vero spirito di solidarietà. Da lì decisi di devolvere a loro il ricavato di quella mostra e di iniziare a collaborare attivamente con questa associazione, usando il mio lavoro per darle visibilità. In quelle zone ci sono tornato più volte e a Kilis, in Turchia, è nato il progetto al quale sono più affezionato. A Kilis i bambini trascorrono il loro tempo in un “far niente” che non è per nulla dolce. Lo è talvolta, o lo è stato, ma non lo è più. Arriva l’inverno, e se prima si poteva gironzolare nei dintorni della propria casa per evadere un po’ dalle quattro mura domestiche, a breve si dovrà stare rintanati in casa per il freddo, evitando le strade fangose, il vento gelido e i pericoli quotidiani del vivere in un luogo che non è tuo e non lo sarà mai. Mesi e mesi di “clausura”, di non interazione, di involontaria costrizione per un’infanzia inesistente non potranno che avere effetti devastanti sulla psiche di questi bambini che non comprendono ancora il perché di tutto questo, di un disagio inaspettato, mai immaginato. La nostra missione è alleviare il peso imbarazzante di una realtà meschina e vile, portare sorrisi e riceverne altrettanti ma anche creare qualcosa di buono, non solo beni effimeri ma durevoli. Dopo sforzi immani è nato un asilo ma costa mantenerlo e la capacità ricettiva è limitata mentre i bambini a Kilis sono migliaia. Servono scuole per garantire istruzione ed allontanare la malvagità insita nell’uomo che è pronto a 16 rubare coscienze, identità, anime. Serve restituire a questi bambini innocenti la loro vita, la loro sacra e unica vita che hanno da vivere in questo mondo. È così che è nato anche il progetto Shot for hope: ho affidato ai bambini una macchina fotografica, una polaroid e ho chiesto loro di fotografare la bellezza, cos’è per loro la bellezza. Quello che è venuto fuori è qualcosa di forte e scioccante, uno di loro, per esempio, ha fotografato le mura di casa, perché per loro poter avere una casa corrisponde già a un sogno, a qualcosa di bello. Ho immaginato spesso il futuro di questi bambini, soprattutto delle bambine, e sentivo che bisognava fare qualcosa per loro e questo qualcosa era garantire la speranza che un futuro diverso potesse essere possibile, che la prospettiva di un lavoro da adulti non fosse irrealizzabile, che un presente dedicato allo studio potesse essere un regalo per le loro giornate. C’è bisogno di una “riqualificazione dell’essere umano” in queste terre e di questo ne sono consapevole…è tutto questo che ha fatto nascere La Bellezza Ritrovata.

Charley Fazio nel 2017 ha dato vita alla Onlus “Joy for Children” con l’intento primario di aiutare i bambini vittime di guerre, persecuzioni e delle loro conseguenze, di disastri, soprusi, ma non solo. Non esclude infatti altri tipi di attività solidali verso popolazioni disagiate ed altre situazioni critiche. Dall’incontro con i bambini di Kilis, oltre alla mostra La Bellezza Ritrovata, è stato prodotto il videoracconto Città di polvere.

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