Giovanni M. Capetta

“Un popolo dalla dura cervice”: ha a che fare con l’incapacità di fidarsi di Dio, ma questa espressione mi ha sempre ricondotto a quel disturbo che, per antonomasia, si chiama “cervicale”. Quando in garage mi volgo indietro per fare manovra e un dolore accompagna puntualmente il movimento, paragono questo sforzo alla fatica di chiedere scusa: una “conversione a u”, un cambio di rotta radicale, come fanno i nuotatori quando toccano con i piedi la piattaforma per divorare con slancio la vasca successiva.

“Scusa” è la terza parola indicata dal Papa come fondamento che sostiene la casa degli sposi, dei figli e dei fratelli: come quelle architravi di legno stagionato che paiono reggere da sole il tetto delle baite di montagna. Chiedere scusa, immergersi nella richiesta di perdono può far sanguinare l’anima, ma è l’unica strada per guarire dal male compiuto, prima che subìto. Lo balbetto, ma talvolta è più facile chiedere perdono a Dio che scusa alla moglie, al padre, ad un figlio. Un’interpretazione troppo umana della misericordia può farci ricevere l’assoluzione in confessionale senza spingerci incontro al fratello chiedendo anche a lui di perdonarci, oppure offrendogli la riconciliazione ricevuta.

Quante volte Gesù ci ha messo in guardia da questa doppia misura?

Eppure, profumati di incenso siamo capaci di rientrare nelle nostre stanze da letto volgendo le spalle al prossimo più prossimo o siamo giudici dei figli, tanto più inflessibili quanto più le loro colpe ci ricordano le nostre. I corsi e i ricorsi nelle stesse storie famigliari, dovrebbero renderci uomini e donne riconciliati con la fragilità e capaci di confrontarci col peccato nostro e altrui senza tentare ogni volta di nasconderlo sotto il tappeto di un oblio che non dura e non placa la nostra innata sete di giustizia. Sempre in credito o sempre in debito, a seconda delle indoli o dei mood stagionali, abbiamo bisogno della pace che solo l’i-per-dono può offrirci. Davvero, come ripetevano i padri monastici, “riconoscere i propri peccati è miracolo più grande del risuscitare i morti!” Il Papa pare entrare nelle case delle tante famiglie da lui incontrate quando dice che senza chiedere scusa “piccole crepe si allargano fino a diventare fossati profondi”.

L’immagine icastica dei litigi famigliari coi “piatti che volano” solleticò i titoli dei giornali dopo quell’udienza del 2015, ma di fatto resta sprone prezioso. Spesso le parole sono più contundenti dei piatti: ce le scagliamo come boomerang e quanto più sono violente tanto più tornano indietro creando muri di silenzio e incomprensione. Il pericolo più grande non è cadere quanto piuttosto non volersi rialzare prima che tramonti il sole sulla nostra ira. Quante volte ci rifugiamo in silenzi di carta velina eppure impenetrabili? Quante volte basterebbe allungare una mano nel buio per trovare una carezza, un abbraccio, o una luce insperata ma, quella piccola distanza ci pare un mare incolmabile? Davvero non dobbiamo temere: chiedere scusa e perdonare spezzano le catene e ci liberano dal male.

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