Giovanni M. Capetta

La misura di ogni felicità è la riconoscenza: è quanto di più vero si possa dire pensando a “Grazie”, la seconda parola che Papa Francesco ci ha indicato come “colonna” del dialogo famigliare, nell’ormai lontana udienza di quel 13 maggio 2015. Spesso pensiamo che ringraziare sia solo la chiusura cortese di un discorso e se siamo “beneducati” lo aggiungiamo ovunque con la naturalezza di un’abitudine acquisita, o meglio, per i nativi digitali, con la facilità più distratta di un I like su Facebook. Dopo la richiesta di un’informazione, un favore, o anche solo alla cassa di un negozio, prendendo indietro qualche moneta di resto, “grazie” è poco più di un sospiro distratto, un intercalare, talvolta solo un riflesso condizionato, che per nulla incide sull’umore dei contraenti. Forse facciamo ancora in tempo a ricordarci i rimproveri dei genitori ogni volta che ci scordavamo di dire grazie all’anziana parente che ci offriva una caramella durante una visita di cortesia; è probabile che noi stessi – sicuramente con più fatica di chi ci ha preceduto – intimiamo ai nostri figli di ringraziare perché è prassi assolutamente dovuta. Ma il fatto è che un “grazie” – come appunto ricorda il grande Chesterton – allarga il sorriso e l’orizzonte non solo di chi lo riceve, ma ancor più di chi lo dona. L’etimologia non è complessa: grazie e Grazia sono sorelle, Grazia è chàris e carità è amore. Chi si sente amato – potremmo anche generalizzare dicendo: chi ha avuto un’infanzia felice, con genitori o adulti che gli hanno voluto bene – ama senza handicap alla partenza e questo vale per tutti, a prescindere che si sentano o meno creature pensate e desiderate da un Padre, ma, poi – nella udienza stessa del 2015 – il Papa precisava e ripeteva due volte: “un cristiano che non sa ringraziare è uno che ha dimenticato la lingua di Dio”. Fin dalla Creazione e poi dall’annuncio a Maria piena di Grazia quello della gratuità è il linguaggio di un Dio che ci ha fatti come un prodigio e ci dona, se lo vogliamo, la gioia di una riconoscenza senza fine. Sentirsi amati è la linfa di una gratitudine che si stende su ogni comportamento: dalla contemplazione di un paesaggio naturale, ad ogni rapporto interpersonale, in famiglia, a scuola, al lavoro, per la strada. Quando uno dei figli ti dice: “io non sono geloso”, devi mettere in conto che quella è una verità più nelle intenzioni che nel profondo del cuore. Siamo tutti gelosi di amore… almeno quanto è “geloso” il Dio che ci ha desiderati dalla notte dei tempi: la nostra ingratitudine nasce ogni volta che – sbagliando i calcoli – crediamo che l’amore distribuendosi si riduca, invece che diffondersi e aumentare. Ogni grazie si scrive nella carne di chi lo dice e di chi lo riceve! Ogni grazie è una benedizione reciproca, come se sullo stipite della porta di casa o sulla nostra stessa fronte potessimo avere impressi i versi di uno dei nostri grandi poeti, Mario Luzi: “sia grazia essere qui, nel giusto della vita, nell’opera del mondo. Sia così”.

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