“Gesù Cristo oggi si chiama rohingya”. Lo ha affermato Papa Francesco incontrando 13 gesuiti che svolgono la loro missione nel Bangladesh poco dopo l’incontro ecumenico al termine del quale ha incontrato un gruppo di rohingya. Secondo quanto riferisce padre Antonio Spadaro, riportando sull’ultimo numero de “La Civiltà Cattolica” la trascrizione delle due conversazioni avute dal Papa con i gesuiti di Bangladesh e Myanmar nel corso dell’ultimo viaggio apostolico, Francesco così si è espresso: “Davanti a quella povera gente che ho incontrato ho sentito vergogna! Ho sentito vergogna per me stesso, per il mondo intero!”. Rispetto alla questione dei rifugiati, Papa Francesco ha ricordato di aver visitato tre campi “enormi: Lampedusa, Lesbo e Bologna”. “A volte – ha aggiunto – non si distingue bene tra un luogo da cui si attende di uscire e un carcere sotto un altro nome. E a volte i campi sono veri campi di concentramento, carceri”. Il Papa ha anche puntato il dito contro “i Paesi che chiudono le loro frontiere. Purtroppo in Europa ci sono Paesi che hanno scelto di chiudere le frontiere. La cosa più dolorosa è che per prendere questa decisione hanno dovuto chiudere il cuore”. “Il nostro lavoro missionario – ha sottolineato Francesco – deve raggiungere anche quei cuori che sono chiusi all’accoglienza degli altri”. E rievocando quanto ha vissuto nel campo di Lesbo, dove i bambini “con una mano salutavano me e con l’altra afferravano la caramella” offerta dal Patriarca Bartolomeo o dove un uomo musulmano di circa trent’anni con tre figli gli ha raccontato della moglie cristiana sgozzata dai terroristi perché non voleva togliersi la croce che aveva addosso, il Papa ha ammonito: “Queste cose vanno viste e vanno raccontate. Queste cose non arrivano ai salotti delle nostre grandi città. Abbiamo l’obbligo di denunciare e di rendere pubbliche queste tragedie umane che si cerca di silenziare”.

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