Pubblichiamo le pagine del sussidio diocesano riguardanti la I domenica d’Avvento

VIDE CHE ERA BELLO
La storia narrata dall’libro dell’Esodo accompagna quest’anno le nostre comunità cristiane. È una storia simile alla nostra: piena di lamenti e di grida, di sudore e di sangue, di ingiustizie e di stenti, eppure tra le righe si rintracciano anche racconti di amori e gesti di generosità, capaci di far sbocciare la vita dentro orizzonti di morte. Nel secondo capitolo si legge: «Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere in moglie una discendente di Levi. La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. Ma non potendo tenerlo nascosto più oltre, prese per lui un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece, vi adagiò il bambino e lo depose fra i giunchi sulla riva del Nilo» (Es 2,1-2)

Il tempo di Avvento e Natale parla di sponsalità (Dio-sposo che torna), di concepimento e di parto (Dio che prende carne nel grembo di una ragazza), di nascita e di bellezza (Dio da concretezza alla rivelazione del suo nome: l’Emmanuele!).

È interessante notare un particolare: di Mosè si dice che la madre «vide che era bello»! Questa espressione evoca il racconto della creazione e ricorda anche a noi che tutte le creature che escono dalla mano di Dio sono belle (cfr. Gen 1,31). La vita è sempre bella: quando sboccia sotto il cuore della madre, quando cresce nel grembo della terra e anche quando si incammina verso il tramonto per approdare in cielo. Ed è bella la vita di tutti, anche quando è ferita o trasandata.

Ora chi nota questa bellezza, la custodisce, la difende, la protegge e cerca di salvarla sono tre figure femminili: una madre, una sorella e una figlia del faraone. In queste donne si può scorgere la Chiesa chiamata a portare splendore dentro un mondo che sembra arrendersi alla bruttezza.

Vivere il tempo di Avvento/Natale vuol dire contemplare la bellezza di Dio e di ogni uomo attraverso il nuovo Mosè che è Gesù, impegnarsi ad ascoltare il grido di quanti vedono la propria vita minacciata e cerca salvezza, collaborare all’opera del Signore che vuole “salvare dalle acque” chiunque è in pericolo.

LO SPALMÒ DI BITUME E DI PECE.
Le azioni liturgiche sono imposte, fanno parte del Rito: leggere la Parola di Dio, consacrare il pane e il vino, dare e ricevere la comunione … Altre azioni o segni possono essere scelte dall’equipe liturgica per esprimere un aspetto della Parola di Dio, la dimensione di un evento vissuto dalla comunità, la celebrazione di una particolare circostanza. In entrambi i casi, comunque, gli oggetti sono simbolici solo se sono legati all’azione rituale. Perché un oggetto faccia opera di simbolizzazione è necessario che gli si dia esistenza e consistenza, in un insieme in cui spostamento, ostensione, gesti e parole che lo accompagnano gli conferiscono un senso nuovo.

Per il tempo di Avvento Natale si propone come segno-simbolo UN CESTO che riprende  il racconto della nascita di Mosè, il primo salvato, e prefigura la vicenda del suo popolo come la nascita del Messia.

Il “cestello di papiro” è una piccola barca di giunco spalmata con bitume, detta tebà; lo stesso termine è usato in Genesi 6 per indicare l’arca del diluvio, ma fa pensare anche alle dodici ceste di pane avanzato dopo la condivisione dei cinque pani e dei due pesci del ragazzo del Vangelo e anche al posto dove Maria e Giuseppe hanno adagiato Gesù (“fátnē” = termine greco che noi traduciamo mangiatoia, ma che sottintende un contesto culturale semitico, cesto o bisaccia in cui si depongono i viveri, le primizie di un raccolto, in cui soprattutto si depone il pane).

Si potrebbe mettere, in evidenza in Chiesa, un bel cesto, magari con accanto la corona d’Avvento, che a Natale diventerà il cesto-culla del Salvatore. Questo “segno-simbolo” potrebbe essere utilizzato anche nei gruppi e in ogni famiglia così da preparare un presepe particolare di domenica in domenica.

VI ADAGIÒ IL BAMBINO.
Il cesto su cui è stato adagiato il bambino Mosè, diventa anche il cesto in cui è stato adagiato un altro bambino Gesù, Salvatore-Emanuele, ma è anche segno-simbolo della nostra vita donata e salvata, del bisogno che qualcuno ci tira su dalle acque, della possibilità che abbiamo di collaborare con il Redentore.
Tema: «Fate attenzione, vegliate!»
Segno: “Un cesto vuoto”.

Cambiano i nomi dei faraoni ma rimane la durezza della vita della gente: vite soppresse, ingiustizie subite, libertà limitate e un grido di dolore che sale a Dio e chiede di squarciare i cieli e scendere. Ma il Signore non interviene direttamente, sceglie Mosè, che  viene salvato anche grazie ad un cesto preparato dalla sua famiglie. Fare attenzione, essere vigilanti vuol dire fare la nostra parte perché il Signore possa intervenire.  Come Noè preparò l’arca per salvare la sua famiglia, come la mamma di Mosè preparò il cesto di papiro, prepariamo anche noi un  “cesto vuoto” e poniamolo in chiesa segno della nostra “attesa attiva”, del nostro poco messo nelle mani di Dio, del nostro desiderio di collaborare con l’opera redentiva di Dio e salvare qualcuno “dalle acque”… Il gesto può essere compiuto prima dell’atto penitenziale.

PER LA RIFLESSIONE
La parola “tebà” che viene utilizzata dall’esodo è la stesa che utilizzata per “l’arca” di Noè: «La prima grande opera, la prima impresa, che ci narra la Genesi non è la Torre di Babele, ma una grande arca di salvezza e di alleanza, costruita da un «uomo giusto» (Gen 6,9). Così nell’arca dell’Alleanza – una parola, arca (tebà), che ritroveremo usata per la “cesta” sulla quale fu salvato Mosè: ancora alleanza e ancora salvezza dalle “acque” – Noè riceve l’ordine di far entrare una coppia di ogni specie di animali, di uccelli, di rettili, oltre se stesso, sua moglie, i tre figli e le loro mogli – la salvezza dell’arca è anche per i suoi costruttori …

Con la storia di Noè abbiamo la prima grammatica di ogni autentica vocazione: c’è una persona che riceve una chiamata; c’è poi una risposta; quindi un’arca; e infine un non-eroe. Questa chiamata viene rivolta a un “tu”, a un nome. Questo “tu” è un giusto, e quindi risponde …

Una sola persona può essere sufficiente per una storia di salvezza. Le salvezze arrivano perché qualcuno sente una chiamata a salvarsi e a salvare e, soprattutto, perché costruisce un’arca. Crea un’opera d’arte, fa nascere una cooperativa, un’impresa, un sindacato, un’associazione, un movimento politico. Forma e custodisce una famiglia, un figlio, un mestiere, riesce a portare lungamente una croce feconda. In tutte le storie di salvezza individuali e collettive c’è un “giusto” e c’è “un’arca”. Uno degli spettacoli spirituali, morali ed estetici più stupefacenti sulla terra è la presenza di persone che hanno ricevuto una vocazione e di opere che nascono da queste vocazioni (a volte apparentemente “mute”). La terra è piena di gente che costruisce “arche” per salvare la propria generazione». (Luigino Bruni).

PER LA LITURGIA DOMENICALE
L’annuncio che il Signore viene a salvarci diventa una chiamata ad andare incontro a colui che viene a liberar­ci, un invito a riconoscerlo come salvatore: la liberazione vera e profonda che il credente attende, infatti, non è opera umana, ma solo grazia di Dio. Per sperimentare la vera libertà occorre non indurire il cuore e soprattut­to vegliare, non permettere che le sirene del mondo assopiscano la nostra coscienza. Vegliare come un guardare avanti, uno scrutare la notte, uno spiare il lento emergere dell’alba, perché la notte che preme intorno non avrà l’ultima parola.

Vivere con attenzione è l’altra parola dell’Avvento e di ogni vita vera. Cosa significa «attendere»? Stando all’etimologia latina (ad-tendere) indica una «tensione verso», «un’attenzione rivol­ta a», quindi l’attesa non è certo passività, inerzia, chiusura nel presente ma azione dinamica e apertura sul domani di Dio. Ma attenti a che cosa? Attenti alle per­sone, alle loro parole, ai loro silenzi, alle domande mute e alla ricchezza dei loro doni. Quanta ricchezza di talenti sprecati attorno a noi, ricche­zza d’intelligenza, di sentimenti, di bontà, che non sappiamo vedere, di cui non ci prendiamo cura. Attenti al mondo grande, al peso di lacrime di questo pianeta barbaro e magnifico, alla sua bellezza, alle sue creature più piccole e indispensabili: l’acqua, l’aria, le piante. Attenti a ciò che accade nel cuore, nel piccolo spazio dove sono chiamato a vivere.

Attenzione e vigilanza sono i ter­mini tipici dell’Avvento, del tempo dell’attesa. Solo le madri sanno l’attesa, sanno che attendere è l’infinito del verbo amare.

È sempre tempo d’Avvento, sem­pre tempo di vivere con attenzione, sempre tempo di adottare strategie di risveglio della mente e del cuore, e non arrendersi al primato – illuso­rio – del male e della notte, non dis­sipare bellezza, non corrompere mai l’innocenza della speranza.

SEGNO: All’inizio della celebrazione Eucaristica si porta un CESTO VUOTO, lo si pone ben in evidenza davanti all’assemblea  e se ne spiega il senso

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