Stefano De Martis

Le pensioni rappresentano uno dei grandi temi del dibattito pubblico di questa stagione e, proprio negli ultimi giorni, su di esso si sono concentrate la preoccupazioni europee per l’andamento del nostro debito pubblico e si è consumata la rottura della Cgil nei confronti del governo. Ma l’argomento è tra quelli che tengono banco anche nei discorsi correnti. In una società sempre più vecchia sarebbe strano il contrario.

È in particolare l’aumento dell’età pensionabile la questione su cui si appunta il maggior interesse e si registra il più alto tasso di polemiche.

Tra la propaganda politica – siamo ormai in campagna elettorale – e i luoghi comuni che spopolano in quella sorta di “bar dello sport” digitale che a volte sono i social network, cercare di fare un po’ di chiarezza può essere un’operazione utile per aiutare la formazione di un’opinione consapevole. Nessuno ha in mano ricette salvifiche ed è lecito dubitare di chi se le intesta.

Innanzitutto, è vero che in Italia si va in pensione più tardi che negli altri Paesi? Attualmente, in base alla riforma Fornero del 2011, l’età pensionabile per gli uomini è 66 anni e 7 mesi. Diventerà 67 anni nel 2019 a causa di un meccanismo di adeguamento (già applicato due volte) collegato con l’aumento delle aspettative di vita calcolate dall’Istat. Restando al valore attuale, un recente studio della Uil ha messo in evidenza che la media Ue è 64,4 anni. Ma se si sposta il confronto dall’età legale a quella in cui effettivamente si va pensione, il quadro cambia. L’Ocse (che raggruppa i 35 Paesi maggiormente sviluppati) ha calcolato che tra 2009 e 2014 l’età effettiva della pensione per gli uomini in Italia è stata pari a 61 anni e 4 mesi, ben inferiore alla media totale di 64 anni e 6 mesi e una delle più basse in assoluto. Sotto di noi ci sono soltanto Francia, Belgio e Slovacchia. Tra le più basse è anche la durata media della vita lavorativa in Italia: 31 anni.

Lo scarto tra età pensionabile legale ed età effettiva è dovuto a una molteplicità di fattori, come la presenza di deroghe ed eccezioni per determinate categorie di lavoratori. È la via percorsa anche dal governo Gentiloni: senza toccare il principio dell’adeguamento alle aspettative di vita per le ripercussioni molto rilevanti che avrebbe avuto sulla spesa pubblica, nuovamente sotto i riflettori della Commissione europea, l’esecutivo ha proposto di estendere l’Anticipo pensionistico, il cosiddetto Ape, a quindici categorie di lavori usuranti. Una via che è apparsa ragionevole anche ai due sindacati che hanno aderito all’accordo, Cisl e Uil.

All’aumento dell’età pensionabile, inoltre, contribuisce in modo significativo l’innalzamento del limite per le donne, innescato da una sentenza del 2008 della Corte di giustizia europea in materia di parità di genere e più repentino che per gli uomini. Anche sotto questo profilo sembra una misura ragionevole l’introduzione da parte del governo di una flessibilità collegata al numero dei figli.

Sarebbe stato peraltro impensabile che un esecutivo alla fine del suo mandato – e con una prospettiva politica del tutto incerta – potesse mettere mano in termini sostanziali a un problema che ha profonde radici strutturali, a cominciare dall’andamento demografico che, questo sì, ci colloca in una posizione di retroguardia in Europa. Se non si riesce ad arginare la denatalità e a invertire la tendenza, non ci sono algoritmi che tengano.

E qui il ragionamento intercetta l’altra grande questione connessa con l’aumento dell’età pensionabile: le conseguenze sulla disoccupazione giovanile.

Il rapporto tra le due grandezze, se si vuole guardare dentro al fenomeno senza semplificazioni “un tanto al chilo”, è molto più complesso di quanto possa apparire. Non sono in campo due vasi comunicanti statici e omogenei, così che se aumenta l’uno diminuisce l’altro e viceversa. Basti solo accennare a come sta cambiando l’idea stessa di lavoro e a che tipo di attività svolgono coloro che vanno in pensione rispetto alle attività in cui oggi si crea nuova occupazione. Tra gli economisti la discussione è molto aperta. Sembra abbastanza assodato che la prima applicazione della legge Fornero, piuttosto brusca anche per la pressione internazionale sui conti pubblici italiani, abbia provocato un contraccolpo negativo. Ma a regime il discorso è più articolato e controverso. Probabilmente in una fase di stagnazione o di crescita molto bassa l’età pensionabile incide di più, mentre in una fase più espansiva diventa un fattore assorbito fisiologicamente dal mercato.

Tuttavia immaginare di affrontare il problema del lavoro dei giovani partendo dall’età pensionabile assomiglia pericolosamente alla scelta di afferrare il toro per la coda invece che per le corna. Non c’è dubbio che occorra porsi il problema – e forse siamo già in ritardo – di assicurare comunque una pensione a chi, come i giovani di questo tempo, ha iniziato a lavorare tardi e ha lavorato in modo frammentario, discontinuo e con salari molto bassi. Alcune proposte sono già allo studio ma occorre che qualcuno se ne faccia carico a livello politico, pur sapendo che l’argomento non porta consensi nell’immediato.

Ma la via maestra per affrontare anche il tema delle future pensioni dei giovani passa per la creazione, oggi, di nuova occupazione e di occupazione di qualità. E ciò ha più a che fare con i processi formativi e di accesso al lavoro che con gli equilibrismi sul filo delle compatibilità finanziarie.

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