M.Michela Nicolais

Favorire modelli di medicina pubblica; elaborare una “dichiarazione universale sulla medicina come attività no profit”; promuovere la prevenzione e l’accesso all’acqua; “fare cultura sulla salute come fatto globale, come fatto sociale, economico, politico, organizzativo, ambientale”; avviare “una collaborazione più intensa tra tutte le organizzazioni no profit”, anche tramite forme di gemellaggio tra istituzioni dei Paesi ricchi e dei Paesi poveri. Sono le cinque raccomandazioni con cui si è conclusa, nell’Aula nuova del Sinodo in Vaticano, la Conferenza internazionale “Affrontare le disparità globali in materia di salute”, promossa nei giorni scorsi dal Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, in collaborazione con la Confederazione internazionale delle istituzioni sanitarie cattoliche (Ciisac). Nel messaggio inviato ai partecipanti – oltre 1.500 provenienti da 66 Paesi – Papa Francesco ha rilanciato il progetto, emerso dai lavori, dell’istituzione di “una piattaforma operativa di condivisione e collaborazione tra le istituzioni sanitarie cattoliche presenti nei diversi contesti geografici e sociali”. Obiettivo: combattere l’“inequità”, vera malattia che è alla radice di tutti i mali sociali e che ha a che fare con l’impegno, non più procrastinabile, di risolvere le cause strutturali della povertà. Alle ditte farmaceutiche, Francesco ha chiesto “strategie sanitarie economicamente ed eticamente sostenibili”.

L’assistenza sanitaria nei Paesi di guerra. Come sottolinea il Global Health Report 2017, le disuguaglianze nel campo della salute sono destinate a crescere, se non ci saranno interventi politici, economici e sociali che invertano la tendenza. Durante la conferenza internazionale, ampio spazio è stato dedicato ad una panoramica sull’assistenza sanitaria nel mondo, con un “focus” sull’attività delle istituzioni sanitarie cattoliche, che si trovano spesso ad operare in contesti ai limiti della sopravvivenza. È il caso della Siria, teatro della più grande catastrofe umanitaria dopo la seconda guerra mondiale, dove il sistema sanitario rischia il collasso. “Più della metà degli ospedali pubblici e dei centri di assistenza sono chiusi o parzialmente agibili a causa del conflitto, e quasi due terzi del personale sanitario ha lasciato il Paese”, il grido d’allarme lanciato dal card. Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria. Drammatica la situazione dei tre ospedali cattolici – due a Damasco e uno ad Aleppo – che operano in Siria da più di un secolo, molto stimati dalla popolazione, e che sono quasi vuoti perché devono affrontare da soli i costi di gestione sempre più cari e insostenibili, visto che l’85% dei siriani vive in condizioni di povertà e non è in grado di contribuire minimamente alle cure mediche. È nata così, dalla nunziatura apostolica, l’iniziativa “Ospedali aperti”, incoraggiata e sostenuta da Papa Francesco e dai suoi collaboratori, grazie alla quale da un mese a questa parte viene garantita l’assistenza ai malati poveri senza distinzione etnica o religiosa. In Uganda, l’ospedale cattolico di Lahore è a disposizione prima di tutto dei rifugiati e degli sfollati interni, e la flessibilità è la risposta ai bisogni della popolazione. “Non vogliamo chiudere le porte a nessuno”, ha spiegato Sam Orochi Orach, segretario esecutivo dell’Uganda Caholic Medical Bureau: “Dal 2009 al 2015 il numero di rifugiati e di sfollati interni in alcuni casi è raddoppiato”, ha fatto notare, ma le cronache si occupano quasi esclusivamente dei primi, mentre i secondi “sono relativamente invisibili, se non vivono nei campi”. In Uganda, da 19 insediamenti per 225mila profughi nel 2015 si è passati nel 2017 a 29 insediamenti che ospitano più di un milione di rifugiati e di sfollati interni. In questo contesto opera l’ospedale di Lahore, che nel periodo del conflitto non garantiva solamente cure, ma anche accoglienza residenziale agli sfollati interni o accoglienza notturna per chi faceva la spola tutti i giorni. Così, durante la guerra ma anche durante la crisi di ebola, è stato allestito un vero e proprio “campo satellite” vicino all’ospedale, protetto da muro perimetrale a prova di pallottole.

In India una “rete di vicinato”, in Taiwan una “task force” contro i disastri. “Il sistema indiano è uno dei migliori al mondo, ma i bambini muoiono ancora di diarrea e polmonite”. A denunciare le contraddizioni del welfare in India, dove gli ospedali visitano 21 milioni di pazienti ogni anno, è stato Matthew Abraham, direttore generale della Catholic Health Association of India, terra in cui convivono i più ricchi e i più poveri al mondo, molti dei quali vivono al di sotto di un dollaro al giorno. E proprio a loro è destinata “una rete di vicinato soprattutto per le cure primarie e preventive”, grazie alla teletecnologia che oggi permette di raggiungere anche le zone più remote. La risposta immediata ai disastri e alle calamità naturali, come terremoti, tsunami, inondazioni: è il settore in cui si concentra l’assistenza sanitaria nel Neuro-Medical Scientific Center del Buddhist Tzu-Chi General Hospital, ha reso noto il suo direttore, Tsung Lang Chiu. Cibo, vestiti, coperte, alloggio temporaneo e assistenza medica nell’emergenza, i primi servizi offerti, che però si accompagnano a progetti a lungo termine: ricollocazione, abitazioni permanenti, reinserimento lavorativo, riabilitazione: i settori di impegno. “Siamo i primi ad arrivare e gli ultimi ad andarcene”, ha sintetizzato Chiu citando l’attività di supporto esercitata in calamità recenti come lo tsunami in Sri Lanka, il terremoto in Kashmir o in Cina e il tifone Haiyan che ha colpito le Filippine.

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