DIOCESI – Lectio delle Monache Clarisse del monastero Santa Speranza in San Benedetto del Tronto sulle letture di domenica 29 ottobre.
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613: tanti erano i precetti etico-sociali che facevano parte del cosiddetto “codice sinaitico dell’alleanza”, norme che regolavano la vita del popolo e di ogni singolo israelita.
Ne abbiamo uno stralcio nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo: «Non molesterai il forestiero…non maltratterai la vedova e l’orfano…se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio…se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole».
Un dottore della legge, nel brano evangelico, chiede a Gesù se, fra tutti questi precetti, ce ne sia uno più importante di tutti gli altri. Gesù risponde: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: amerai il tuo prossimo come te stesso». Quello di Gesù, però, vuole essere non tanto un ordine, quanto la proposta di un itinerario, una sorta di indicazione per il cammino da intraprendere.
Amerai: un verbo al futuro perché amare è un’azione che non si conclude mai. Amare è un progetto, ed è l’unico: Non solo emozione, non pura anarchia, non solo sentimento così come neanche puro obbligo ma necessità per vivere che, come tale, chiede una concretezza.
Chi, allora, amare?
Il Signore tuo Dio: non un dio qualunque, ma il tuo Dio, dove “tuo” sta per intimità, contatto personale, relazione bocca a bocca. Non delegabile, non sostituibile!
Con tutto il tuo cuore, tutta la tua anima, tutta la tua mente: non c’è dosaggio per questo amore, perché dosare l’Amore significherebbe tradirlo!
E un Dio che non riempie il mio cuore, il mio orizzonte, la mia anima, la mia mente, la mia intelligenza, i miei progetti, la mia vita, non è un Dio che amo davvero!
Solo da questo Amore scaturisce la seconda parola: amerai il tuo prossimo come te stesso. Perché, per amare “in basso” bisogna guardare in alto, perché in basso, intorno, troveremo sempre motivi per non amare. Se manca il gancio in alto, rischiamo di buttare via il basso e tutto noi stessi, rischiamo di non riuscire ad amare gli altri e neanche noi stessi.
Allora, acquistano senso le norme che leggiamo nella prima lettura perché, un amore a Dio che corrisponde ad incapacità di amicizia, freddezza di rapporti, acidità nelle relazioni, distorsione delle proposte affettive, rende misera la vita. Perché, all’infuori delle relazioni, non esiste manifestazione dell’Infinito.
E amare Dio diventa pura illusione quando non si ama nessuno sulla terra.
«Ti amo, Signore, mia forza», canta il salmista: che questo amore diventi per noi concretezza di vita, così come è stato per la comunità di Tessalonica, a cui Paolo scrive. Uomini e donne che si sono lasciati rivestire dell’amore di Dio, un amore, una fede, una testimonianza che, come leggiamo nella seconda lettura, risuonano e vivono «dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne».

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