Alberto Baviera

Dal Piemonte alla Sicilia sono 155 le realtà collegate alla Chiesa italiana impegnate direttamente nella gestione di beni confiscati alle mafie che sono così diventati realtà positive e simboli di riscatto. A fornire uno spaccato del riutilizzo dei beni sottratti alla criminalità organizzata e affidati a 671 soggetti con finalità sociale è il dossier “Libera il bene. Dal bene confiscato al bene comune”, realizzato da Libera e chiuso in tempo per essere consegnato ai partecipanti alla 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani. Si tratta di una sorta di aggiornamento rispetto al progetto avviato cinque anni fa dalla sinergia tra Libera e la Conferenza episcopale italiana, l’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro, il Servizio nazionale per la pastorale giovanile e la Caritas italiana.

“Il dato generale – spiegano gli estensori del dossier – racconta di un intero Paese che ha saputo trasformare dei segni di potere mafioso sul territorio, in opportunità e alternative per il contesto sociale di riferimento”.Sono sorti così centri di aggregazione, case di accoglienza, percorsi di reinserimento lavorativo e sviluppo del territorio…

Secondo il monitoraggio concluso una decina di giorni fa, è la Sicilia la regione italiana con più enti gestori (168). Se si aggiungono quelli della Lombardia (137) si va oltre il 45% di quelli impegnati in Italia. Al terzo posto la Campania (110), seguita da Calabria (102) e Puglia (58). Significativa la presenza anche nel Lazio (39) e in Piemonte (20), mentre nelle altre regioni non si va oltre i 10.
Passando alla tipologia di gestore, più della metà (339, il 50,5%) sono associazioni, 162 invece le cooperative sociali. Ci sono anche 21 associazioni temporanee di scopo o d’intenti, 20 enti pubblici oltre a società sportive, consorzi di cooperative, scuole o enti di formazione e associazioni Scout.

Se si analizza la cartina d’Italia limitandosi alle 155 realtà collegate alla Chiesa cattolica, si riscontra una presenza territoriale che segue abbastanza il fattore di proporzionalità nazionale. Succede così in Sicilia (38) e in Lombardia (30), mentre in Calabria (34) e Puglia (19) la presenza è maggiore della percentuale nazionale. Complessivamente

le esperienze sono nate e si sono sviluppate in 13 regioni italiane e in 46 diocesi.

Anche in ambito ecclesiale sono le associazioni le realtà più numerose (55) davanti alle cooperative (28). L’Agesci è coinvolta in 13 situazioni mentre la Caritas in 9. Sono invece 27  le diocesi e le parrocchie direttamente coinvolte come enti gestori.

La seconda parte del dossier è dedicata ad una presentazione dettagliata, suddivisa per regioni ecclesiastiche, degli immobili confiscati dati in gestione e delle pratiche di riutilizzo sociale nelle diocesi.

Una mappa attraverso la quale compiere un vero e proprio giro d’Italia alla scoperta di quella “Chiesa in uscita”, capace di sporcarsi le mani mettendosi in gioco per il bene comune.

Questa rete di diocesi, parrocchie, Caritas diocesane, cooperative e associazioni utilizza i beni confiscati “trasformando luoghi di violenza e di morte in segni di vita nuova e speranza”, come scrisse il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, nel libro “Dal bene confiscato al bene comune. Chiesa italiana e storie riuscite di nuovo umanesimo” uscito nel 2015. Un brano che viene riproposto anche nel nuovo volume con tutta la sua attualità. Perché, si legge nel dossier,

“il riutilizzo dei beni confiscati costituisce un’opportunità di lavoro per i giovani, coniugando e integrando la dimensione economica con quella etica e sociale, nella sperimentazione di soluzioni innovative relative alla valorizzazione e all’autosostenibilità”.

Tra i soggetti coinvolti, anche la Fondazione con il Sud e le organizzazioni legate al progetto Policoro in una rete che dalle diocesi alle associazioni, passando per le parrocchie già sono protagoniste della creazione di quel lavoro “libero, creativo, partecipativo, solidale” al centro in questi giorni dell’appuntamento di Cagliari.

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