Di Francesco Zanotti

La visita di Papa Francesco a Cesena è già entrata nella storia della città e della diocesi. Per un territorio di periferia, anche se qui siamo in una delle periferie più benestanti d’Italia, si tratta sempre di un evento per il quale risulta difficile trovare aggettivi adeguati. I vari “straordinario, eccezionale, incredibile, indelebile, impensabile” strausati in questi giorni, tutti insieme non riescono a descrivere quel che si è vissuto in due ore intensissime, il breve tempo che appartiene già alla memoria collettiva del territorio.

Se mai fosse possibile tentare questa ardita operazione, riassumerei il passaggio in Romagna, “terra di accese passioni politiche” l’ha definita Francesco, in due ricette e centinaia di incontri “a tu per tu”. È stato forse quest’ultimo il dato più sorprendente della presenza del Pontefice a Cesena.

Nessuno si attendeva tanti colloqui così ravvicinati. Nessuno si poteva nemmeno immaginare che il Papa potesse dedicare così tanto tempo ad abbracciare, salutare, ascoltare, stringere mani e volti di quanti si sono sottoposti a una levataccia pur di non mancare a un appuntamento attesissimo.

Dal menù di lunga vita di un’arzilla suor Imelde dalle 105 primavere, alla dedica a don Sauro Rossi in carrozzina da anni fino a quella a don Walter nell’agenda dei ricordi che si apre con l’autografo di Giovanni Paolo II, è stato tutto uno spendersi senza fiato per farsi prossimo a fare avvertire la vicinanza di una Chiesa chiamata a essere ogni giorno in uscita.

Da brividi le braccia al collo e le strette di mani con numerosi disabili, non solo nella cappella della Madonna del Popolo, la patrona della diocesi, dove erano in attesa venti ammalati con i loro accompagnatori. Sceso dal palco sistemato nella centralissima piazza del Popolo, Francesco si è piegato sulle sofferenze di una decina di portatori di handicap e ammalati.

Qui l’emozione si è trasformata in commozione per il fuori programma del tutto inatteso, ma che fa parte di quel ministero incarnato dal Papa argentino tanto vicino a chi si trova emarginato o nella sofferenza.

Poi le due ricette. La prima è quella della “buona politica”, quella che si spende per il bene comune di tutti. “Una politica che non sia né serva né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o avventata, ma responsabile, quindi coraggiosa prudente nello stesso tempo; che faccia crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva inclusione e partecipazione”. Una buona politica che “non lasci ai margini alcune categorie, che non saccheggi o inquini le risorse naturali. Una politica che sappia armonizzare le legittime aspirazioni dei singoli e dei gruppi tenendo il timone ben saldo sull’interesse dell’intera cittadinanza”. Così esercitata e impersonata la politica diventa “un servizio inestimabile al bene dell’intera collettività”.

La seconda ricetta, rivoluzionaria, è quella con i vecchi che sogneranno e i giovani che profetizzeranno, l’apparente paradosso preso in prestito dal profeta Gioele. Giovani e vecchi, vecchi e giovani, ha ripetuto più volte Francesco. “Questo dialogo farà miracoli” è stato il suo pressante invito. Infine l’applicazione nel quotidiano. “Un giovane che non ha imparato, che non sa accarezzare un anziano, gli manca qualcosa. E un anziano che non ha la pazienza di ascoltare i giovani, gli manca qualcosa. Tutti e due devono aiutarsi ad andare avanti insieme”.

Due ricette, anche istruzioni per l’uso, per essere davvero rivoluzionari, alla maniera di Francesco. Per dare testimonianza della gioia del Vangelo.

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