Di Silvia Rossetti

In un istituto tecnico di Rimini il preside pubblica nuove disposizioni in materia di “dress code” per gli studenti ed è subito polemica.
Tentare di fissare un codice che regolamenti l’abbigliamento degli studenti a scuola e, in generale, provi a puntellare i confini di quella che, in un tempo ormai vetusto, veniva definita “decenza” è oggi una operazione coraggiosa e complicata. Per farlo con equilibrio e con respiro pedagogico, senza cadere nel facile tranello del moralismo, occorre attraversare le tumultuose correnti della contestazione strumentale e della contemporanea pessima tendenza alla frammentazione del progetto educativo. È questo il caso in cui un argomento, apparentemente marginale, diventa invece paradigmatico di un atteggiamento sociale miope e gravemente lesivo.
Al “comune senso del pudore” la prima batosta è arrivata tra gli anni Sessanta-Settanta quando spicconando le ipocrisie dei moralismi, abbiamo perduto lungo la strada anche la capacità di percepire il senso del pudore come sentimento intimo e valoriale. Poi la bufera social ne ha fatto poltiglia. Il villaggio globale col suo tam tam stupra ormai quotidianamente i confini dell’essere umano, spesso andando a lederne la dignità ed esponendo il singolo all’occhio macroscopico e spietato del pubblico pagante.
Qualcuno penserà: cosa c’entrano in tutto ciò la canottierina e il jeans strappato altezza natica dell’adolescente medio? Ebbene: la miopia sta proprio in questa domanda. Sta in chi si solleva tra la pletora dei cosiddetti “benaltristi” e, agitando il dito, fa notare che la scuola ha “ben altri” problemi sui quali concentrarsi. Vero; ma è suo dovere dedicarsi anche a questi di problemi, perché assieme agli altri fanno l’ossatura di un unico progetto: la costruzione dell’essere umano e del cittadino.
Il modo di vestire, di parlare e anche di relazionarsi agli altri di un adolescente è terreno di preziose opportunità educative. Oggi l’eccessivo rilassamento dei costumi “passa” come l’esito di un cammino consapevole verso l’emancipazione e la legittimazione dello spirito creativo dell’individuo, ma si tratta di una falsa lettura. In realtà assistiamo un semplice “abbandono di campo” con tanto di bandiera bianca da parte dei principali enti educativi, che poi sfocia nella negligenza.
Sappiamo bene che gli adolescenti, pur rivendicando l’indipendenza personale, in realtà tendono ad adattarsi e a imitare. Vestono in un certo modo per sentirsi parte di un gruppo ed essere accettati, per non incappare in critiche che non sono in grado di affrontare. La trasgressione fine a se stessa è soltanto una scorciatoia, che nulla a che vedere con la reale emancipazione. E il pubblico decoro deve poter essere un “sentimento comune e condiviso” in una società che abbia l’ambizione di essere davvero sostenibile e paritaria, rispettosa della sfera intima degli individui.
Il pudore, considerato come sentimento, ha un valore inestimabile, custodisce il nostro io profondo e lo preserva nel momento più delicato, quello della crescita.
Educare a questa sensibilità non è compito facile per la famiglia e per la scuola. Oltre ai regolamenti sarebbe auspicabile aprire degli spazi di confronto e di riflessione. Ai giovani vanno portati solidi argomenti e non soltanto regole. I semi germogliano sempre nelle menti fertili. A noi adulti il compito di misurarci col tempo dell’attesa e della saggezza.

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