“Tutti noi in genere ci dividiamo tra giustizialisti e permissivisti sul tema della giustizia, fino a quando questo tema non tocca la nostra carne”. È partito da questa considerazione padre Francesco Occhetta, gesuita e scrittore de “La Civiltà Cattolica”, per parlare questa mattina della giustizia riparativa all’incontro tematico svoltosi al Meeting di Rimini.
Occhetta ha osservato come “in Italia, il grande dimenticato dell’ordinamento sono le vittime e il loro dolore” e ha ricordato alcuni dati relativi ai detenuti italiani, soprattutto quelli riguardanti il sovraffollamento delle carceri (quasi 57mila detenuti a fronte di una capienza massima di 50mila) e il tasso di recidiva che “è del 69%”. “È un modello che non funziona”, ha ammonito il gesuita, rilevando che “se la recidiva calasse anche solo dell’1% ci sarebbero migliaia di euro di risparmi”. In Italia, ha aggiunto “23mila le persone sottoposte a misure alternative al carcere, che stanno funzionando perché la recidiva è quasi del 18%”. Occhetta ha poi spiegato che oltre al modello di “giustizia retributiva con certezza pena e proporzionalità della pena” e a quello della “giustizia rieducativa” si sta affacciando un “modello integrativo, quello della giustizia riparativa con al centro il dolore della vittima”. “La pena – ha aggiunto – viene stabilita rispondendo a tre domande: ‘chi è colui che soffre?’, ‘qual è la sua sofferenza?’ e ‘chi ha bisogno di essere guarito?’”. Il percorso si articola in cinque passaggi: “il riconoscimento per il reo delle propria responsabilità davanti alla vittima e alla società; l’incontro del reo con la vittima; l’intervento della società attraverso la responsabilità diretta e l’intervento del mediatore; l’elaborazione della vittima della propria esperienza di dolore; l’individuazione della riparazione”. Prima di aver ricordato le radici bibliche del modello, il gesuita ha affermato che il “modello di giustizia riparativa c’è in Europa e in America. In Italia dovremmo aiutare la politica a farlo diventare sistema”. Occhetta ha poi ammonito che “siamo chiamati a fare verità”, a “non giudicare ma a rieducare il colpevole”. E, ricordando i suoi studi di giurisprudenza, ha rilevato che “rischiamo di vivere un diritto troppo positivizzato. Ai miei compagni di studi a fine degli anni ‘80 dico: ‘tutti sognavamo questo modello che ci poteva cambiare la vita nella giustizia. Ma dove siete andati a finire?’. Si sono positivizzati”. “Il diritto – ha concluso – è la distruzione di una relazione e la possibilità di far reincontrare le persone, non aumentare ed esasperare i conflitti e la tensione sociale”.

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