“Non riesco ancora a capire come, nel 2017, si possa parlare di ‘ghetto’, addirittura di gran ghetto e di caporalato senza stupirsi, senza ribellarsi, senza indignarsi”. È quanto scrive il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, in un editoriale pubblicato su “Il Sole 24 Ore” ricordando quanto successo, alcuni mesi fa, quando il “ghetto di Rignano” andò in fiamme. “In quei giorni – osserva Galantino – la cronaca dell’incendio ha ‘bruciato’ l’essenza della notizia ovvero i due ragazzi immigrati morti”. Secondo il segretario generale della Cei, “al di là degli aspetti giudiziari che non conosco, al di là della decisione di effettuare lo sgombero da parte delle Istituzioni per dare un’alternativa più dignitosa alle condizioni di vita degli abitanti, al di là delle tante realtà territoriali che hanno offerto e stanno offrendo assistenza, da cittadino italiano e da pugliese, l’idea che il nostro Paese permetta l’esistenza di luoghi dove si viva come bestie, in baracche costruite con cartoni e plastica e se va bene un po’ di legno, tra rifiuti, sporcizie, senza acqua e senza corrente elettrica, non è e non può essere ammissibile. Mai. Figuriamoci nel 2017”. “Dovremmo chiedere scusa ai due ragazzi malesi che in Italia hanno trovato la morte invece che la speranza – prosegue Galantino – ma dovremmo chiedere scusa in modo molto più pressante e convinto a tutte le persone che abitavano nel ghetto, che avevano riposto nel ghetto la tranquillità del vivere quotidiano, fra lavoro e fatica. E che sono ancora vivi”. “Finché non riusciremo a liberarci dall’arte di girare alla larga dalla sofferenza – qualsiasi sofferenza – non faremo passi in avanti verso la civiltà”, rileva. “Che lavoro è trascorrere un’intera giornata nei campi per un raccolto e guadagnare meno di 10 euro? Che dignità dà quel lavoro se, nonostante i pochi euro guadagnati, si ha anche l’obbligo di dare una quota del “ricavo” ai datori di lavoro?”. “Sarò pure un ingenuo, ma – sottolinea Galantino – quanto sarebbe incoraggiante per tutti sapere quanti caporali vengono arrestati nelle tante ‘Rignano’. Quanti i soldi recuperati? Quante le vittime risarcite? Quali le aziende virtuose?”. “Solo pubblicando e pubblicizzando in maniera puntuale eventuali risposte a queste domande si può pensare che qualcosa cambi. Solo dando notizia dell’esperienza di integrazione che si sta vivendo in tanti piccoli e grandi Comuni italiani – conclude – sarà possibile ‘bonificare’ l’aria dalla disinformazione e dalla diffusione di notizie montate ad arte a beneficio dei rancorosi di professione”.

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