DIOCESI – Abbiamo intervistato il segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, il Vescovo Nunzio Galantino.

Mons. Galantino, il suo ultimo libro si intitola «Beati quelli che non si accontentano». Come possiamo vivere oggi il Vangelo e in particolare le Beatitudini?
«Come ha tentato di fare la Chiesa in duemila anni. Non dobbiamo inventarci assolutamente niente. Forse dovremo, oggi più che mai, renderci conto che le parole non bastano: ci vuole la testimonianza, l’impegno. Sul Vangelo bisogna metterci la faccia, cioè le nostre decisioni concrete, disponibili anche qualche volta, o spesso, a pagare il prezzo di questa coerenza»

In questo mondo in cui cerca di imporsi il pensiero unico i giornalisti come possono portare avanti il loro lavoro avendo sempre al centro l’uomo?
«I giornalisti in questo momento più che mai hanno una grandissima responsabilità. Soprattutto se mettono al centro l’uomo e non l’interesse di chi li paga, non l’interesse della carriera o l’interesse del servizio al pensiero unico. Hanno una grande influenza, una grande responsabilità ma se sono uomini veramente liberi.
Professionisti lo sono già, però devono stare attenti a non piegare tante volte questa loro professionalità a interessi di bassa lega».

Prosegue, anche attraverso il tavolo permanente voluto della Cei il riposizionamento dei media cattolici. Il tema della comunicazione sarà anche in programma ad una prossima assemblea generale dei vescovi italiani. Per molti media c’è il timore di scomparire, specie per quelle realtà che si basano sul volontariato. Cosa ci può anticipare sul percorso intrapreso dai vescovi italiani? Non c’è il rischio che molte diocesi diventino afone?
«Innanzitutto si tenga presente che si è afoni se non si vive, se non si testimonia, si è afoni se non si ha il coraggio di vivere il Vangelo, nonostante tutto. È chiaro che tutto questo deve essere anche comunicato.
La preoccupazione della Cei e di tutti quanti i vescovi è che non vengano meno queste voci di periferia, ma nel senso più nobile della parola. Perché i giornali diocesani assicurano la presenza, la vitalità del territorio che sfugge, purtroppo, alla grande stampa.
Per cui non possiamo permetterci il lusso di farle venire meno. Questo però non significa che dobbiamo arroccarci in vecchie tecnologie, in vecchie pretese. Abbiamo bisogno di aggiornare anche il nostro modo di essere, il nostro modo di stare, soprattutto tutto il nostro modo di collaborare. È volontà e desiderio e preoccupazione dei vescovi non far morire assolutamente – anzi intensificare – la presenza dei settimanali cattolici, delle radio e delle televisioni. Questo però non si risolve soltanto dando soldi, ma soprattutto spingendo verso progetti più articolati, progetti più realistici, progetti più coraggiosi. Di questo ha bisogno ora la nostra stampa».

 

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