Patrizia Caiffa

Le due famiglie siriane sono lì, intorno ad un tavolo. Bambini e adulti insieme, imparano le prime parole di italiano. Sono trascorsi una decina di giorni da quando sono arrivati il 7 marzo a San Giovanni Rotondo, il paese di San Pio da Pietrelcina, e già sanno dire “ho mal di pancia”, “ho mal di testa”, buongiorno, ciao e buonasera. Husam e Intisar-Ali (sua moglie) hanno 4 figli tutti maschi, dai 7 ai 20 anni, di cui uno in dialisi e in attesa di un trapianto di rene che gli donerà la madre. Waleed e Nahdieh hanno invece 7 figli, dai 5 ai 20 anni, qui vincono numericamente le femmine: 5 a 2. La figlia diciottenne ne dimostra purtroppo la metà, a causa di un tumore all’ipofisi che le ha provocato un grave deficit cognitivo. Sono i primi 15 rifugiati siriani entrati in Italia grazie al canale umanitario (tecnicamente una operazione di reinsediamento) organizzato dalla Chiesa italiana con i fondi 8×1000 tramite la Caritas, in collaborazione con la diocesi di Manfredonia e i frati cappuccini di San Giovanni Rotondo. Altre 5 famiglie, per un totale di 41 persone, arriveranno entro fine mese. Una sorta di sperimentazione ufficiale prima dei 500 profughi che entreranno in Italia grazie ai corridoi umanitari finanziati dalla Cei in accordo con il governo italiano. Dopo la fuga dal conflitto in Siria e quattro anni difficili trascorsi nell’immenso campo profughi di Za’atari in Giordania, vicino al confine siriano, finalmente le due famiglie iniziano a vivere giorni sereni, in pace. Possono avere cure mediche per i propri figli, cibo a volontà. Possono ricominciare a sognare un lavoro, la scuola, la normalità.

La fuga dalla Siria. Le due famiglie non si conoscevano prima ma l’esodo forzato che le ha portate fino a qui ha aspetti simili. Husam imbiancava case a Damasco ed era emigrato, perfino, ad Abu Dhabi per far star meglio i figli. Waleed invece aveva un minimarket a Dar’a. Nel 2013, quando le bombe e la violenza sono peggiorate, l’ineluttabile decisione di partire. Soprattutto perché curare i figli malati in quelle condizioni era impossibile. Un borsone a testa, pochissimi abiti ma tante spezie per ricordare i sapori della terra perduta, e poi autobus, treni e a piedi, per passare la frontiera tra Giordania e Siria.

“È stato il momento più difficile. I soldati ci sparavano addosso, abbiamo pensato di morire”.

Poi i quattro lunghi anni nel campo di Za’atari, che accoglie decine di migliaia di siriani, l’80% sono donne e bambini. Za’atari è oramai diventata una miserabile città di tende e baracche nel deserto, con una microeconomia interna e tanti pericoli e disagi. “La notte non dormivamo, il clima lì è 50 gradi di giorno e freddo la notte. E le rare volte che pioveva, l’acqua ci arrivava alle ginocchia”, dice Waleed. “Mia moglie non rideva più – conferma Husam -. Qui ha ricominciato a sorridere”.

Un piccolo desiderio: andare a pescare. Ora sono accolti in una struttura messa a disposizione dai frati cappuccini di San Giovanni Rotondo. Ogni famiglia ha due camere con bagno e sala da pranzo e la cucina in condivisione. I quattro operatori Caritas che li seguono, insieme a due mediatori culturali, riempiono il frigo di viveri. “Troppa roba – dicono -. Nemmeno i nostri genitori hanno fatto così tanto per noi”. Potrebbero gestirsi i tempi e gli spazi in maniera autonoma, invece da quando sono arrivati è una (comprensibile) festa. “Cucinano dalla mattina alla sera e mangiano tutti insieme – racconta al Sir Angela Cosenza, coordinatrice del “Protetto. Rifugiato a casa mia” della Caritas di Manfredonia -. Se non restiamo a pranzo con loro si offendono. Il resto della giornata trascorre tra caffè, thè, camomille, corsi di italiano e visite mediche”. Grazie al supporto dell’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza, i due ragazzi con seri problemi sanitari sono seguiti costantemente. I primi giorni sono serviti per ambientarsi:

“Li abbiamo portati al supermercato e una giornata intera al mare. Erano felicissimi”.

I bambini sono timidi e rispettosi, si vergognano a fare richieste. Solo Husam ha manifestato un piccolo desiderio: andare a pescare.

Un territorio accogliente. Il direttore della Caritas di Manfredonia, don Luciano Vergura, ha già trovato un ragazzo che lo porterà in spiaggia, tutti e due con la canna da pesca in spalla. San Giovanni Rotondo, che ha già un Centro di accoglienza straordinaria (Cas) con 40 richiedenti asilo sul territorio, si è dimostrato un paese aperto ed accogliente. La Caritas aveva già dato integrazione sociale a 13 persone con il “Protetto. Rifugiato a casa mia”. Una di loro, Norma, è la mediatrice siriana che accompagna le famiglie. “È una dolce avventura in cui stiamo ricevendo tanto – commenta don Vergura -. Abbiamo aderito all’invito del Papa di un anno e mezzo fa e tutte le parrocchie si sono mobilitate. Finora non c’è stata una voce contraria, è un territorio molto accogliente”. A breve “si deciderà se i bambini saranno subito inseriti nelle scuole italiane o se è meglio aspettare settembre”, aggiunge Luciana Forlino, di Caritas italiana. In attesa dei prossimi amici siriani che arriveranno presto. Il passato è oramai alle spalle.

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