Stefano De Martis

Chi sperava che la Corte costituzionale potesse togliere le castagne dal fuoco ai partiti, sciogliendo per via giuridica tutti i nodi più intricati della legge elettorale, sarà rimasto deluso. La Consulta, infatti, nella sentenza sull’Italicum depositata nella serata del 9 febbraio, ha rilanciato la palla nel campo della politica.

Dovrà essere il Parlamento, e quindi i partiti rappresentati in esso, ad assumersi la responsabilità di decidere con quale sistema elettorale gli italiani andranno alle urne, al massimo tra un anno.

Tuttavia, nelle cento pagine firmate dal presidente della Corte, Paolo Grossi, e dal giudice relatore, Nicolò Zanon, ci sono molte indicazioni importanti per il legislatore. Se il contenuto delle decisioni era già noto dal 25 febbraio, infatti, le motivazioni con cui i giudici costituzionali hanno argomentato quelle decisioni sono tutt’altro che irrilevanti.

Innanzitutto il no al ballottaggio, che secondo l’Italicum avrebbe visto le due liste più votate contendersi al secondo turno un robusto premio di maggioranza. La Consulta precisa che di per sé non ci sono ostacoli costituzionali a un meccanismo del genere, ma è il modo in cui è stato congegnato nell’Italicum a essere lesivo dei principi della Carta. Non essendo stata prevista una soglia minima di voti per passare al secondo turno, i giudici osservano che “una lista può accedere al turno di ballottaggio anche avendo conseguito al primo turno un consenso esiguo e ciononostante ottenere il premio, vedendo più che raddoppiati i seggi che avrebbe conseguito sulla base dei voti ottenuti al primo turno”. È stato invece giudicato legittimo il premio di maggioranza attribuito alla lista capace di ottenere il 40% dei consensi nella prima tornata di voto. In questo caso la sentenza valuta ragionevole la soglia individuata e considera proporzionato il sacrificio di rappresentatività rispetto all’esigenza di governabilità. Analogo ragionamento rende compatibili le soglie di sbarramento pensate per ridurre la frammentazione della rappresentanza parlamentare.

L’altro argomento forte che ha portato alla bocciatura del ballottaggio è, per così dire, “di sistema”. Infatti, dopo la vittoria del no al referendum costituzionale, i due rami del Parlamento hanno conservato identiche funzioni, compreso il voto di fiducia al governo, e sarebbe insensato avere una legge elettorale fortemente maggioritaria per la sola Camera. A questo proposito la Corte scrive il passaggio politicamente più rilevante della sentenza: “La Costituzione, se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non devono ostacolare, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee”.

C’è un punto in cui la sentenza chiede in modo piuttosto esplicito al legislatore di intervenire ed è a proposito delle pluricandidature. La norma bocciata prevedeva che il candidato eletto in più collegi potesse scegliere a piacimento in quale collegio risultare eletto, “in contraddizione manifesta – osserva la Consulta – con la logica dell’indicazione personale dell’eletto da parte dell’elettore”. Dichiarato incostituzionale tale meccanismo, per consentire che la legge elettorale fosse comunque immediatamente applicabile, la Corte non ha potuto fare altro che riesumare una vecchia norma (del 1957) già presente nell’ordinamento e che introduceva il metodo del sorteggio. Con un’avvertenza: “Appartiene con evidenza alla responsabilità del legislatore sostituire tale criterio con altra più adeguata regola, rispettosa della volontà degli elettori”.

La Consulta, che nel 2014 aveva censurato le lunghe liste interamente bloccate previste dalla legge elettorale del 2005, il cosiddetto Porcellum, stavolta ha invece lasciato in vigore i capilista bloccati introdotti dall’Italicum. Rispetto all’altra legge, i giudici hanno sottolineato tre differenze essenziali: “Le liste sono presentate in cento collegi plurinominali di dimensioni ridotte, e sono dunque formate da un numero assai inferiore di candidati; l’unico candidato bloccato è il capolista, il cui nome compare sulla scheda elettorale (ciò che valorizza la sua preventiva conoscibilità da parte degli elettori); l’elettore può, infine, esprimere sino a due preferenze, per candidati di sesso diverso tra quelli che non sono capilista”.

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