M.Michela Nicolais

Sperare è “aiutarsi a vicenda”, “portare le debolezze altrui”. È un appello a “non creare muri ma ponti”, a non dire: “Me la pagherai”. È dedicata al “respiro comunitario” della speranza l’udienza di oggi, al termine della quale il Papa ha lanciato un appello a “fare ogni sforzo per debellare” il crimine vergognoso e intollerabile della tratta delle persone umane, in occasione della relativa Giornata. Prima di congedare i 7mila fedeli che hanno gremito oggi l’Aula Paolo VI, Francesco, mostrandone l’immagine, ha additato come esempio santa Giuseppina Bakhita, “ragazza schiavizzata in Africa, sfruttata, umiliata”, ma che “non ha perso la speranza” ed è arrivata “come migrante” in Europa. “Preghiamo per tutti i migranti, i rifugiati, gli sfruttati, che soffrono tanto”, l’invito del Papa, che ha chiesto in particolare di pregare “per i nostri fratelli e sorelle rohingya, cacciati via dal Myanmar” e costretti ad andare “da una parte all’altra perché nessuno li vuole”.

“Aiutarsi a vicenda: non solo nei tanti bisogni della vita quotidiana, ma aiutarsi nella speranza, sostenersi nella speranza”.

Esordisce con un appello a braccio, Francesco, indirizzato prima di tutto “a coloro ai quali è affidata la responsabilità e la guida pastorale”, che “hanno quanto mai bisogno del rispetto, della comprensione e del supporto benevolo di tutti quanti”.

“Noi spesso abbiamo notizie di persone che cadono nella disperazione, la ‘disesperanza’ porta a fare cose brutte”, prosegue il Papa attirando l’attenzione sui “sui fratelli che rischiano maggiormente di perdere la speranza, di cadere nella disperazione”: il riferimento è “a chi è scoraggiato, a chi è debole, a chi si sente abbattuto dal peso della vita e delle proprie colpe e non riesce più a sollevarsi”. In questi casi, “la vicinanza e il calore di tutta la Chiesa devono farsi ancora più intensi e amorevoli, e devono assumere la forma squisita della compassione, del conforto e della consolazione”.

Perché la compassione “non è avere pietà: è patire con l’altro, soffrire con l’altro, avvicinarsi a quello che soffre, portare una parola, una carezza, ma che viene dal cuore”. “Portare le debolezze altrui: questo è importante”, sintetizza Francesco.

Una “testimonianza”, questa, che “non rimane chiusa dentro i confini della comunità cristiana: risuona in tutto il suo vigore anche al di fuori, nel contesto sociale e civile, come appello a non creare muri ma ponti, a non ricambiare il male col male, a vincere il male con il bene, l’offesa con il perdono”.

“Un cristiano mai può dire: ‘Me la pagherai’, questo non è un gesto cristiano: l’offesa si vince col perdono”.

“Questa è la Chiesa! E questo è ciò che opera la speranza cristiana, quando assume i lineamenti forti e al tempo stesso teneri dell’amore, e l’amore è forte e tenero, è bello”.

“Non si impara a sperare da soli. Nessuno impara a sperare da solo. Non è possibile”, scandisce il Papa: “La speranza, per alimentarsi, ha bisogno necessariamente di un corpo, nel quale le varie membra si sostengono e si ravvivano a vicenda”. “Se speriamo, è perché tanti nostri fratelli e sorelle ci hanno insegnato a sperare e hanno tenuto viva la nostra speranza. E tra questi, si distinguono i piccoli, i poveri, i semplici, gli emarginati”. Perché

“non conosce la speranza chi si chiude nel proprio benessere, spera soltanto nel suo benessere: quello non è speranza ma sicurezza relativa”.

A sperare, invece, sono “coloro che sperimentano ogni giorno la prova, la precarietà e il proprio limite. Sono questi nostri fratelli a darci la testimonianza più bella, più forte, perché rimangono fermi nell’affidamento al Signore, sapendo che, al di là della tristezza, dell’oppressione e della ineluttabilità della morte, l’ultima parola sarà la sua, e sarà una parola di misericordia, di vita e di pace”.

“Se non è facile credere, tanto meno lo è sperare. È più difficile sperare che credere”, ammette Francesco: “Ma quando lo Spirito Santo abita nei nostri cuori, è lui a farci capire che non dobbiamo temere, che il Signore è vicino e si prende cura di noi; ed è lui a modellare le nostre comunità”. “Chi spera – conclude il Papa ancora una volta a braccio – spera di sentirsi dire un giorno questa parola: ‘Vieni da me per tutta l’eternità’”.

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