The Sermon on the Mount Carl Bloch, 1890DIOCESI – Lectio delle Monache Clarisse del monastero Santa Speranza in San Benedetto del Tronto sulle letture di ieri, domenica 29 gennaio.

Il profeta Sofonia, nella prima lettura, ci dice che l’autentico popolo di Dio è un «resto» formato da chi è giusto, fedele, mite, non orgogliosamente autosufficiente, ma cosciente della sua dipendenza da Dio e del suo status di cercatore di Dio e della sua giustizia.
Quando parliamo di “resto”, a volte rimane più facile soffermarsi sull’accezione negativa del termine, ovvero “ciò che avanza, ciò che rimane” da una precedente maggiore quantità, “ciò che è sopravvissuto”, “ciò che è scampato”, qualcosa di insignificante.

Se continuiamo nella lettura, la Parola di questa quarta domenica del tempo ordinario sembrerebbe rivelarsi una conferma di tutto ciò.

Il salmista ci parla di un Dio custode di oppressi, affamati, prigionieri, ciechi, caduti, giusti, forestieri, orfani, vedove. San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, scrive di un Dio che sceglie «quello che è stolto per il mondo…quello che è debole…quello che è ignobile e disprezzato…quello che è nulla…».

Nel Vangelo, Gesù proclama beati i poveri in Spirito, quelli che sono nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia.

Può sembrare, a prima vista, che la liturgia ci presenti un Dio dal forte spirito di “raccoglimento”, dalla forte compassione, tanto da crearsi una sorta di “Armata Brancaleone”, un “resto” di ultimi ai quali promette «rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Dio non è colui che viene a dare occasione di riscatto sociale a chi nel mondo è ai margini; Dio, attraverso suo Figlio, viene ad annunciare la gioia intima della comunione con Lui, la gioia di chi partecipa al suo sentire e al suo volere.

Scegliere di fare esperienza di questa gioia è scegliere di affidarsi completamente a Dio, porre in Lui ogni fiducia, cercare in Lui il solo rifugio.
In virtù di tutto questo, miseria e rinuncia non costituiscono in sé, in alcun modo, motivo di beatitudine o di elezione o di esaltazione. Ovvero…il cristiano non è lo sfortunato per eccellenza, chiamato a soffrire perché la sofferenza lo avvicina al Dio che ha sofferto!

La povertà e la rinuncia hanno il loro comune motivo nella chiamata e nella promessa del Signore e nel nostro rispondere “sì” ad esse.
Pronunciando quel “sì”, sceglieremo consapevolmente di rimanere così privi di risorse, di farci così “folli” agli occhi del mondo, da non poter più sperare se non in colui che ci ha chiamati.
Come discepoli di Cristo, scegliamo la privazione e le ristrettezze, scegliamo di essere i più poveri tra i poveri, i più precari tra i precari, i più affamati tra gli affamati: abbiamo solo Lui, non abbiamo niente nel mondo,assolutamente, nulla, ma abbiamo tutto presso Dio.

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