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Rigopiano, terremoto, maltempo: la speranza non è un dire consolatorio in momenti bui

neveCristiana Dobner

Le illusioni covano dentro di noi e ci impediscono di considerare, chiaramente e con aderenza al reale, quanto ci accade o quanto, addirittura, ci travolge.
Troppo spesso, sia nel linguaggio comune, sia in quello silente dentro la nostra coscienza, regna una notevole confusione: l’equivalenza fra speranza e illusoria realtà.
Si tira una riga spietata fra realisti, spesso dal colore nerofumo e dal bicchiere mezzo vuoto, e gli idealisti, dal colore roseo e dimoranti fra le nuvole.
Si cinge così d’assedio un termine cristiano che invece è intriso di sapienza e di certezza. Nudamente però, ricco di un distacco emotivo che spesso edulcora invece di sollecitare ad una presa specifica.
Per chi muova i propri passi nella storia dell’umanità alla Luce della Parola di Dio, conta proprio il punto di partenza, il focus, quello che regge tutta l’esistenza.
Nella lingua della santità, cioè nell’ebraico, speranza si dice tiqvà. La concretezza del linguaggio del popolo d’Israele soccorre e determina, impedisce gli svolazzi della fantasia a favore di un equilibrio esistenziale autentico.
Tiqvà, infatti, significa corda.

Come può una semplice corda esprimere adeguatamente uno stato d’animo, una postura personale, una scelta di vita che si impernia sulla Rivelazione del Creatore?

Non è una corda abbandonata al suolo e neppure una corda a forma di lazo lanciata per catturare. Non pende da un soffitto o non è lasciata scorrere da un tetto.
È una tiqvà, appunto, tenuta nella mano del Creatore che la lancia e la offre a ciascuno nella storia perché la possa tenere nella propria mano e continuare a muovere i propri passi con la corda tesa, in comunione e in armonia con Colui che ci sorregge e guida. Non è quanto ha vissuto e operato l’abbé Pierre diventando testimone di speranza?
Papa Francesco è esplicito:

Sperare per il cristiano significa la certezza di essere in cammino con Cristo verso il Padre che ci attende. La speranza mai è ferma, la speranza sempre è in cammino e ci fa camminare.

Non è un dire consolatorio in questi momenti bui della storia italiana e della storia del nostro pianeta che si chiede fino a quando la terra tremerà e fino a quando i disastri naturali lo flagelleranno.
Dovunque si getti lo sguardo sulla vita dei nostri compagni e compagne di cammino, non possiamo chiudere gli occhi alle difficoltà, ai dolori, alle catastrofi.
Ultima, ma pur sempre incombente, la morte.
Nel suo commento alla vicenda di Giona, il profeta, Francesco, riferendosi alla reazione dei marinai in pericolo per la tempesta, afferma:

La reazione di questi “pagani” è la giusta reazione davanti alla morte, davanti al pericolo; perché è allora che l’uomo fa completa esperienza della propria fragilità e del proprio bisogno di salvezza. L’istintivo orrore del morire svela la necessità di sperare nel Dio della vita. “Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo”: sono le parole della speranza che diventa preghiera, quella supplica colma di angoscia che sale alle labbra dell’uomo davanti a un imminente pericolo di morte.

Penso ai nostri eroi soccorritori nella loro faticosa e pericolosa opera di salvataggio in Abruzzo in cui è in gioco la loro propria incolumità: la loro corda deve essere tesissima, si insinua in ogni loro mossa, è un richiamo potente a Chi può soccorrere.

Non si può scaricare il barile della slavina sulla volontà di Dio, sui nostri peccati interrogandoci sulle nostre colpe o mancanze.

Si sbaglia completamente o, comunque, è un altro piano del discorso dove responsabilità propria e comunitarie, insieme ecologiche ed etiche si intrecciano e si richiamano.

La catastrofe colpisce ed è inesorabile ma il legame fraterno scatta e salva oppure fa tutto e di tutto per salvare in coesione e disinteresse.

Il discorso della salvezza ecologica del pianeta è noto e va tenuto in conto. Nel momento della sciagura però altri fattori entrano in causa e si dimostrano primari e ineludibili.
Cadono tutte le parole, restano i fatti, quelli operosi e disinteressati che parlano quel linguaggio che porge aiuto con le proprie mani. In quelle mani però, invisibile ma reale, c’è la tiqvà, la corda che, condivisa è ancora più tesa, più rivolta a Colui che è Padre.
Ancora Francesco:

Che il Signore ci faccia capire questo legame fra preghiera e speranza. La preghiera ti porta avanti nella speranza e quando le cose diventano buie, occorre più preghiera! E ci sarà più speranza.

Preghiera che significa cuore rivolto a Lui, mia pulsante tiqvà.