MayDi Gianni Borsa

È quasi un paradosso. A dare l’avvio ai negoziati per il divorzio tra Regno Unito e l’Unione europea sarà il governo della piccola Malta, resasi indipendente proprio da Londra nel 1964. A marzo, infatti, salvo sorprese, la premier Theresa May si presenterà a Bruxelles impugnando l’articolo 50 dei Trattati comunitari, chiedendo di procedere verso la Brexit, l’uscita dall’Europa comunitaria. E in questo primo semestre 2017 la presidenza di turno del Consiglio dei ministri Ue, che assieme alla Commissione Juncker tratterà le condizioni della separazione, spetta proprio alla Valletta.
Resta peraltro da superare il passaggio parlamentare dopo che, il 24 gennaio, la Corte Suprema inglese ha stabilito che Westminster dovrà pronunciarsi sul Brexit. Ma appare un voto poco più che formale, perché difficilmente il parlamento si porrà in contrasto con una decisione popolare.
Così Joseph Muscat, laburista, premier maltese nato a indipendenza acquisita, sarà chiamato al tavolo delle trattative, cui si avvicina suo malgrado. “Purtroppo – ha spiegato durante la recente sessione plenaria dell’Europarlamento – la Gran Bretagna ha deciso di lasciare l’Unione. Noi vogliamo un accordo giusto” per i britannici, che il 23 giugno scorso decisero la Brexit mediante referendum, ma “intendiamo ugualmente salvaguardare il progetto comunitario”, “gli interessi dei restanti 27 Paesi Ue e di tutti gli altri cittadini europei”.
Muscat si esprimeva a poche ore dal discorso con il quale, la scorsa settimana, la May aveva annunciato l’“hard Brexit”, un’uscita chiara e netta dalla “casa comune”,perché “vogliamo – aveva detto – una Gran Bretagna più forte, giusta, unita e rivolta all’esterno”. Stop dunque al mercato unico, stop all’unione doganale, stop agli arrivi “incontrollati” di cittadini Ue sulla terra di Shakespeare; avanti semmai con un accordo commerciale con i 27, perché – bontà sua – “vogliamo rimanere amici dell’Europa”. L’inquilina di Downing Street guarda con favore al rilancio del Commonwealth, con Londra “attore globale”, intenta a trattare, da pari a pari, con Washington, Mosca e Pechino. Si vedrà.
Per Muscat, l’uscita senza mezze misure degli inglesi dall’Ue (benché in Scozia il discorso della May abbia suscitato dure reazioni contrarie),

contribuisce a fare chiarezza ed è un passo “dovuto”.

Infatti, ha spiegato il giovane premier maltese, “il mercato unico prevede quattro libertà” – circolazione delle persone, delle merci, dei capitali e dei servizi – e queste “sono indivisibili”, costituiscono “un pacchetto unico”, che Londra “non intende accettare”. No, dunque, a una Ue “à la carte”, dove ciascuno prende ciò che vuole, avanzando diritti senza assumere i relativi doveri e responsabilità.
La stessa May aveva peraltro sottolineato nel suo discorso alla Lancaster House di Londra che la Brexit “è una lezione anche per l’Ue se vuole avere successo”. È vero. Le spalle voltate del Regno Unito sono una ferita lacerante per l’Europa, ma al contempo la richiamano, in epoca di crisi, populismi e nazionalismi, a un serio esame di coscienza – culturale, progettuale, politico, istituzionale – che risulterà benefico.
Del resto è opportuno ricordare che la Brexit non può che avere i caratteri della nettezza. E per varie ragioni.In primo luogo per rispettare la volontà degli elettori britannici: se pur con una maggioranza risicata (52% i leave, 48% i remain) si sono espressi per lasciare l’Ue. In secondo luogo per rispetto agli altri 440 milioni di cittadini Ue che, rimanendo nell’Unione, si impegnano a rispettarne Trattati e regole (oltre che a beneficiare dei vantaggi che essa produce). Quindi – terzo – per assumere con coerenza il profilo dell’Unione europea, il cui quadro giuridico, cui si aderisce per libera volontà degli Stati, prevede un “dentro” e un “fuori”, non certo un “dentro a metà”, un piede sì e l’altro no (sono già troppe le clausole opt-out e gli “sconti”, diversi dei quali concessi proprio a Londra, e non ne occorrono degli altri).
La quarta ragione è altrettanto importate: nell’Ue servono valori e progetti condivisi, chiarezza, nuovo slancio, risposte concrete alle attese dei cittadini, mentre ogni tendenza di chiusura nazionalistica e ogni spinta alla disgregazione fanno male a tutti e a ciascuno e per questo devono essere scoraggiati e, possibilmente, evitati. Chi decide di restare lo deve fare liberamente e consapevolmente, contribuendo a rilanciare l’integrazione comunitaria, anche correggendo, laddove necessario, le “pecche” dell’Ue. Diversamente è meglio seguire la strada – incerta e carica di incognite – intrapresa da Londra.

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