TrumpDi Damiano Beltrami

L’inaugurazione della presidenza di Donald Trump è alle porte (il nuovo inquilino della Casa Bianca giura venerdì 20 gennaio) e tra le famiglie cattoliche di migranti senza documenti, in particolare ispanici, cresce la preoccupazione che il magnate newyorchese possa dar corso alle sue promesse elettorali in fatto di politiche migratorie, cosa che ha confermato con forza anche nelle ultime ore. Nei mesi precedenti al voto Trump aveva detto, tra le altre cose, di voler “costruire un muro al confine con il Messico”, di voler creare una “nuova task force per la deportazione degli immigrati illegali” (che si stima siano almeno 11 milioni), e di voler riservare al governo federale il diritto di “scegliere gli immigrati con più probabilità di far bene in America e di amare il Paese”. Le parrocchie, dallo Stato di New York alla California, lavorano per sostenere spiritualmente famiglie in ansia, offrendo loro anche l’assistenza legale necessaria per tranquillizzarsi. “Forse il nuovo anno si apre con un po’ di angoscia nel cuore per molte famiglie”, ha detto in una recente omelia monsignor Anthony Valdivia alla chiesa di San Giuseppe lavoratore a Berkeley in California, davanti a fedeli in gran parte messicani-americani. “Eppure dobbiamo ricordarci che se il Signore ci ha dato un nuovo anno, Lui ha dei programmi per noi, ci dona nuove possibilità, e quindi dobbiamo procedere con coraggio”.

Paura e insicurezza. Molti latinos sembrano comunque in grande apprensione. “Normalmente per muovermi prendo l’autobus, ma di questi tempi neanche a parlarne, temo che agenti dell’immigrazione salgano a bordo e ci chiedano i documenti”, dice la signora Alba, 71 anni, addetta alle pulizie che fa la spola tra Albany e Oakland e che non si fida a dire il suo cognome. “A volte mi sveglio nel mezzo della notte bagnato di sudore”, racconta invece Roberto Soto, 43 anni, muratore.

“Mi sembra di sentire degli agenti che battono sulla porta, ammanettano me, mia moglie e le mie due figlie e ci rispediscono in Messico”.

Risorse e orientamento. Recentemente la diocesi di Oakland, di cui Berkeley fa parte, ha organizzato presso la chiesa di San Jarlath un forum sulle problematiche legali di chi non ha i documenti e però di fatto risiede negli Stati Uniti. L’idea è stata del parroco, padre Stephan Kappler, che – il giorno dopo le elezioni – al catechismo ha visto diversi bambini scossi e impauriti dai discorsi che sentivano in famiglia. “L’importante – ha sottolineato padre Kappler – è che la gente conosca i suoi diritti. Francamente nessuno merita di vivere nell’ansia”. Sam Davis, coordinatore delle Organizzazioni comunitarie di Oakland (Oco), un’associazione che lavora al fianco della diocesi su questo tema, ha spiegato che

“l’idea di espellere tutti i sans-papiers è largamente impraticabile perché metterebbe in crisi l’economia, ma è possibile che vengano negati dei diritti agli immigrati”.

Simili incontri vengono organizzati da parroci e gruppi cattolici in diverse altre diocesi.

Dreamers in azione. Chi teme maggiormente l’arrivo di Trump sono i cosiddetti “dreamers”, i sognatori (figli di genitori senza documenti portati negli Stati Uniti quando erano bambini), giovani cresciuti negli Stati Uniti e che spesso parlano uno spagnolo solo approssimativo e culturalmente non potrebbero essere più nordamericani di come sono. Per loro l’idea di tornare nel Paese d’origine dei genitori – sia il Messico, il Venezuela, la Colombia o qualsiasi altro – è un incubo.

“Dobbiamo prepararci a combattere una dura e giusta battaglia legale”,

spiega Sandra Vargas, studente d’informatica alla San Francisco State University. “Il nostro obiettivo è restare. E restare con, e non senza, i nostri genitori. Dividere le famiglie sarebbe aberrante!”.

Tutto torna in discussione. Un progetto di legge per dar loro uno status legale e creare un iter verso la cittadinanza c’è da tempo. Si chiama Dream Act (da cui “dreamers”) ma non è mai diventato legge. L’unico passo concreto in questa direzione è stato compiuto dal presidente Barack Obama, che nell’agosto 2012, ha approvato un decreto presidenziale, il Deferred Action for Childhood Arrivals (Daca) che sostanzialmente permette ai figli di immigrati irregolari di vivere e lavorare legalmente negli Stati Uniti. Finora ne hanno beneficiato 600mila persone. Ma il nuovo presidente potrebbe facilmente stracciare il decreto rimettendo tutto in discussione.

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