Bagnasco“Il populismo non rappresenta una risposta ai problemi e alle sfide del nostro tempo. Esso insegue e cavalca i disagi, ma non li governa. Invece a noi serve una nuova sintesi, una visione d’insieme per guardare al futuro dell’Europa con speranza”. Il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, presidente della Cei e del Ccee (Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa), si trova questa settimana a Bruxelles. Accompagnato da una trentina di sacerdoti della sua diocesi, sta incontrando le realtà ecclesiali europee e la comunità italiana presente nella capitale belga, così come le istituzioni Ue. Nella sede della Comece (Commissione degli episcopati della Comunità europea), a due passi dall’Europarlamento e dalla Commissione, incontra i giornalisti di Sir, Avvenire e Rai per un confronto di ampio respiro, toccando i temi urgenti della politica internazionale, il ruolo delle religioni nella sfera pubblica nell’Unione e nei Paesi membri, il compito dei cristiani per edificare la “casa comune”.

Quali sono le prime impressioni che sta ricavando qui, nella “capitale d’Europa”?
Per me si tratta della prima visita a Bruxelles. Trovo un’attività fervente, impegnativa e delicata. Un lavoro intenso volto all’integrazione comunitaria. Stiamo inoltre conoscendo da vicino il ruolo svolto dalla Comece presso le istituzioni dell’Unione europea.

Di recente lei è stato eletto alla presidenza del Ccee. Quali sono il profilo e il compito di tale organismo continentale?
Il Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa è una realtà ampia, in cui sono rappresentate le Conferenze episcopali di tutto il continente; è, dunque, un organismo arricchito da tutte le sensibilità ecclesiali e culturali d’Europa. Il Ccee – diversamente dalla Comece – ha un timbro soprattutto ecclesiale, pastorale, ponendo al centro dell’attenzione la nuova evangelizzazione cui ci richiama Papa Francesco. Il nostro contributo, in tal senso, vorrebbe portare a ricomprendere le radici cristiane dell’Europa. Da queste deriva la centralità della persona umana, che è appunto un’acquisizione frutto del cristianesimo. A tale proposito osservo che nell’Europa di oggi, pur in un contesto in cui la secolarizzazione è un dato di fatto, sta maturando una maggiore consapevolezza di queste radici e del valore della dimensione religiosa nella vita pubblica, oltre che in quella privata. Dimensione religiosa che riguarda certamente il cristianesimo, ma anche la presenza delle altre religioni.

Il magistero dei pontefici e dei vescovi richiama i cristiani alla presenza e al servizio in campo civile e sociale. A che punto siamo?
Mi pare stia complessivamente crescendo nei cristiani, e specie tra i giovani, la convinzione dell’impegno nell’ambito sociale e politico (naturalmente secondo le inclinazioni e doti personali) per la costruzione della città dell’uomo. E questo vale anche per l’edificazione dell’Europa come casa comune.

Qui non può mancare la presenza, motivata, competente e costruttiva dei cristiani.

Aggiungerei che per un certo periodo i cristiani si sono un po’ estraniati dalla società, dalla politica: si è pensato che fosse sufficiente una coerente testimonianza personale. Ciò non basta. Gesù ci ha detto che dobbiamo essere sale e lievito del mondo, per cui occorre esserci. Questo richiede esigenti percorsi di formazione e una rinnovata capacità di rendere ragione dei nostri principi e convinzioni: è importante mostrare come essi abbiano un valore universalmente condivisibile. Dobbiamo fra l’altro osservare quanto è cambiato l’“alfabeto umano”…

In che senso?
Parole che un tempo avevano un significato e un consenso condivisi e trasversali – come appunto il valore della vita, la persona, la famiglia, la sessualità, il lavoro – oggi sono fraintese. Habermas ci segnala che oggigiorno è necessario tradurre il linguaggio religioso in termini laici: ciò richiede coraggio, convinzione, preparazione.

L’Europa sembra “assediata” da crescenti flussi migratori e non di rado la risposta è la chiusura dei confini. Intravvede il pericolo di una fortezza-Europa?
Sì, ci può essere questo pericolo. I timori diffusi nell’opinione pubblica – emersi anche in relazione alla crisi economica, alla disoccupazione, alle stesse migrazioni, al terrorismo – possono portare la politica a sbilanciarsi verso un fronte più difensivo. Ma sarebbe un errore. Anche perché nessuno ha la ricetta in tasca e nessuno si salva da sé.

Le chiusure e i muri devono essere evitati

cercando piuttosto di rispondere alle paure e alle esigenze dei cittadini con iniziative articolate, efficaci, in grado di produrre risultati per il bene delle persone. Sul tema delle migrazioni sottolineerei inoltre il ruolo che l’Italia sta mettendo in campo per accogliere e integrare i rifugiati; tale impegno dovrebbe essere riconosciuto in sede europea, anche con un sostegno esplicito, politico ed economico.

Quali dovrebbero essere, a suo avviso, le priorità dell’Europa politica in questa tormentata fase della sua storia?
Direi certamente il lavoro, e poi la sicurezza sociale e il welfare, rimettendo al centro la famiglia. Anche in relazione a questi temi essenziali, sento spesso sorgere una domanda dalla nostra gente: dove stiamo andando? È un interrogativo semplice, ma profondo. Ci rammenta che forse manca una visione d’insieme in questo nostro tempo, in questa nostra Europa, nei nostri Paesi. Una visione relativa al senso della vita, alla convivenza, alla solidarietà, al progresso… Dobbiamo chiederci se ciò che stiamo vivendo rende l’uomo più felice, più vero, solidale. Mi pare che sia un orizzonte da considerare in sede politica e a livello ecclesiale.

Come vede l’Ue del futuro?
Senza voler intervenire in un ambito che non mi è proprio, ricordo solo ciò che ho già detto in altre occasioni, quando ho parlato di un’Europa più “leggera”.

Magari un po’ meno burocratica, ma più vicina alle persone, capace di far “innamorare” di sé i cittadini.

Una Unione riconciliata con i popoli, le identità, la storia del continente; rispettosa delle diversità in cui si articola l’Europa stessa. Se questo è vero, a tutti spetta un’azione culturale approfondita, per far comprendere che l’Europa non è “matrigna”, ma “madre”. Tutti i continenti hanno qualcosa da offrire agli altri: l’Europa deve riscoprire le sue specificità, la sua vocazione. Spesso si dice che l’Europa è smarrita, che ha perso la sua anima: io utilizzerei piuttosto questa affermazione come una esortazione, come un invito a ritrovare le proprie origini, il senso e – come ho già detto – le radici. Qui ritorna ancora il compito educativo.

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