MosulDi Daniele Rocchi

Prosegue la battaglia di Mosul: l’offensiva per la liberazione della capitale irachena dello Stato Islamico del Califfo Abu Bakr al Baghdadi, lanciata lo scorso 17 ottobre dall’esercito regolare, prosegue con difficoltà, tra insidie e trappole. Dopo un mese di combattimenti i governativi – sostenuti dalla coalizione internazionale a guida Usa e da 45mila uomini, tra soldati, forze curde e milizie sciite – sono riusciti infatti a liberare solo 5 degli 80 quartieri del capoluogo e in due di questi si spara ancora. Kokichli, al Intisar e al Sheima, recitano i rapporti militari sono “completamente bonificati” mentre in quelli di al Salam e al Qadissyah, “sono ancora in corso violenti combattimenti”. Si tratta di zone note a Dalida Gorgees Burtrus che a Mosul è nata 25 anni fa. Le notizie che arrivano dal fronte parlano ancora di guerra e hanno l’effetto di allontanarla ogni giorno di più dalla sua terra. Lei che da Mosul è fuggita a giugno del 2014, subito dopo l’invasione dello Stato Islamico, e oggi vive da profuga con la sua famiglia ad Amman. Accolta dalla chiesa locale, Dalida, cattolica di rito caldeo, passa le sue giornate, nella zona di Jabal Webde, in un piccolo atelier di moda, frutto di un progetto promosso dal Patriarcato latino di Gerusalemme, dove, insieme ad altre 11 sue amiche di Mosul, Kirkuk e Baghdad, tentano far rivivere colori e tessuti della tradizione mediorientale ma soprattutto di ricucire la trama di una speranza distrutta dalla violenza della guerra e dello Stato islamico. La loro storia oggi si intreccia con quella della loro “griffe”, che porta significativamente il nome di “Rafidin – Made by Iraqi girls”. “Rafidin” vuol dire “i due fiumi”, termine usato comunemente per indicare il Tigri e l’Eufrate, i due corsi d’acqua dell’Iraq.

Vedere oggi la battaglia di Mosul per questa giovane ragazza irachena, diplomata in tecnica informatica, vuole dire riaprire un libro di ricordi dolorosi. Che cominciano molto prima dell’arrivo del Daesh nel 2014.

“A Mosul soffriamo dal 2003, molto prima dell’arrivo dello Stato Islamico – racconta la giovane sospendendo per un po’ il suo lavoro sartoriale – abbiamo patito le guerre precedenti, gli scontri confessionali nati dopo la caduta del regime di Saddam Hussein nel dicembre del 2003 – e, dal 2014, l’arrivo di Daesh e il terrorismo.

Non siamo fuggiti una volta sola, ma più volte in questi anni, per trovare rifugio nella Piana di Ninive, dove ci sono tanti villaggi cristiani”. I ricordi si fanno più recenti e corrono a giugno del 2014, quando a Mosul entrano i combattenti di al Baghdadi. “In quei giorni – ricorda Dalida – abbiamo perso tutto ciò che avevamo, casa, affetti, scuola, lavoro, amici. Nella nostra zona, poco fuori città, i miliziani hanno subito tolto l’acqua, la luce, e bloccato l’arrivo di ogni genere di fornitura alimentare. Siamo fuggiti con quello che avevamo addosso. All’inizio abbiamo sostato fuori il centro urbano perché credevamo che l’esercito iracheno potesse riprendere subito in mano la città. Abbiamo atteso invano. Nel frattempo si stringeva la morsa contro i cristiani ai quali veniva intimato di convertirsi all’islam o di pagare la tassa di protezione. L’alternativa era la morte. La fuga da Mosul e dai villaggi vicini è stata drammatica perché le strade erano intasate di gente, famiglie, che fuggivano con ogni mezzo. Tutto questo avveniva sotto il martellamento dell’Isis. Eravamo preparati a tutto, sapendo che la fuga era l’unica soluzione. Siamo fuggiti solo con quello che avevamo addosso. All’inizio abbiamo cercato riparo verso il nord iracheno, in Kurdistan, ma non c’erano le condizioni per vivere e quindi abbiamo deciso di venire in Giordania nella speranza di poterci ricostruire una vita dignitosa”.

Oggi si combatte per la liberazione di Mosul,  ma non basta a far tornare a Dalida e alle sue amiche la voglia di rientrarvi, in fondo dicono in coro, “non abbiamo un’idea chiara di quanto stia accadendo. Una cosa sola sappiamo:

a Mosul è stato tutto raso al suolo.

Quelle case che sono rimaste in piedi dentro sono state incendiate dai miliziani in fuga. Stanno seminando ancora morte e distruzione fino alla fine. Se dovessimo tornare dovremmo ricominciare tutto da capo.

No. Non torneremo a Mosul. Emigreremo.

Abbiamo presentato richiesta alle autorità competenti di alcuni Paesi, tra cui Usa, Canada e Australia. Sono due anni che aspettiamo. Speriamo di andare via presto. Il lavoro di sarta che stiamo imparando potrebbe essere una chiave per una vita migliore altrove. Qui siamo profughi, non possiamo avere un permesso di lavoro, frequentare le scuole. Che futuro potremo mai avere? Per questo utti i cristiani vogliono partire”. Tanta sofferenza ma anche tanta fede.

“Nonostante tanto dolore non abbiamo mai perso la fede in Dio. Sappiamo che Dio non ci avrebbe abbandonato e così è stato.

In passato la nostra Chiesa ha pianto la morte violenta di fedeli e pastori, fra cui il vescovo monsignor Faraj Rahho, che mi amministrò la Prima Comunione, e di padre Ragheed Ganni e di alcuni suddiaconi. Questa è la nostra Chiesa.

I nostri martiri ci insegnano che ogni cristiano deve portare la sua Croce. Questa è la nostra”.

Nel segno del dialogo. “Nascere cristiano o musulmano o di un’altra fede non può essere una colpa. Siamo esseri umani con il diritto di vivere. Per dialogare bisogna partire da questo principio. Rispettare l’umanità significa rispettare il diritto di vivere dell’altro. Se non c’è rispetto per l’umanità non ci sarà mai rispetto per la vita”. È tempo di riprendere il lavoro, i capi di “Rafidin” devono essere finiti, le richieste sono tante, soprattutto dall’Italia. Il sogno di nuova vita passa anche per un ago e per un filo. Mentre a Mosul si combatte e si muore.

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