FerrarottiDi Marco Testi

A proposito della clonazione di esseri viventi che possono essere domani anche clonazioni di individui umani e quindi far cadere la irrepetibilità e la irriducibilità di ogni individuo, quello che viene detto dalla Chiesa cattolica mi trova del tutto consenziente”.
Franco Ferrarotti, uno dei maestri della moderna sociologia, sta affrontando un tema diverso da quello che potrebbero far pensare quelle sue parole sulla nuova genetica, quella “invasiva”. Il tema di cui sta parlando in un convegno organizzato a Palermo dal Centro di Pastorale Universitaria, è quello del ruolo dell’intellettuale oggi. Il suo intervento, che possiamo leggere ora in un libro dell’editore Solfanelli, “Osservazioni sul lavoro intellettuale” (75 pagine) non è incentrato però sulla genetica. Sta parlando delcoraggio di essere contro, anche contro un certo uso della scienza, che è la strada del nuovo intellettuale.

E allora che cosa deve fare oggi l’intellettuale, per conservare il suo ruolo messo in crisi da quello che Ferrarotti chiama il principio di sapere tutto ma non comprendere nulla, scaturito dalla velocità di apprendimento – apparente – e dalla velocità di oblio – reale-?

Non c’è che una soluzione, oggi: fare delle scelte, accettando che quelle scelte siano parziali e soggette a revisioni e aggiustamenti. Questo significa dare per scontato che la nostra visione della realtà è parziale ma nello stesso tempo necessaria.
Ferrarotti cita giustamente un poeta (e non è un caso che la poesia sia una delle realtà del passato, insieme alla filosofia, che meglio sopravvive, nonostante tutto), Arthur Rimbaud, che affermò, giovanissimo – ma i geni non hanno età – “je est un autre”, vale a dire “io sono anche un altro, l’io è anche l’altro”. L’esistenza dell’altro impone di fatto una necessità di fare posto anche alle sue idee. Ma c’è posto. Ci deve essere.
Il lavoro intellettuale oggi ha una sua realtà se ha il coraggio di dire no, non un no fissativo e paranoide, alla realtà in toto, ma a quelli che l’uomo di cultura pensa siano i guasti: ad esempio, come scrive Ferrarotti stesso, il fatto che “tutto è presente, dilatato. Non si sa da dove si viene né dove si va”, perché “la memoria è finita”.
E allora il nuovo lavoratore intellettuale deve mettere assieme questa saggezza, che viene dalla antica Grecia e poi passa per il cristianesimo della rivalutazione della dignità umana, facendo convivere due cose che molti ritengono inconciliabili:

la coscienza della parzialità della visione di ognuno di noi, e la convinzione che in ogni caso si deve pur averla, una visione del mondo, anche se votata alla parzialità.

Certo, dice Ferrarotti, ci sono dei punti fermi: il rifiuto di ogni discriminazione razziale, il rispetto per l’altro qualunque siano le sue convinzioni.
L’intellettuale insomma ha ancora lavoro: ma deve smettere di corteggiare il presente rissoso, spettacolare, senza memoria e senz’anima, per ritornare alle radici dell’umanità, dei sentimenti autentici, della sete di sapere che viene da molto lontano. E deve avere memoria. Quella vera, paziente, che ha bisogno di tempo, ma che offre tempo. E vita reale.

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