Iraq

DiDaniele Rocchi

“Un’operazione che corona due anni di sforzi, successivi alla disfatta delle forze armate irachene di fronte all’avanzata dell’Isis, nell’estate del 2014. Il lavoro svolto dalla coalizione internazionale ha ricreato le condizioni di fiducia e la capacità di combattimento delle forze armate irachene che, da 17 mesi, hanno recuperato più della metà dei territori controllati dal Daesh. Lo sforzo politico diplomatico è stato notevolissimo ma serve ora, più che mai, una grande cooperazione tra le varie minoranze. A Mosul le operazioni militari non saranno tuttavia semplici e si dovrà operare con grande prudenza sia per l’estensione della città sia per la densità di popolazione”. Così Matteo Bressan, analista del Nato Defense College Foundation, parla della offensiva dell’esercito iracheno per liberare Mosul, giunta ormai alla terza settimana. Una liberazione possibile solo se verrà assicurato, dice l’esperto, autore, tra gli altri, del libro “Eurasia e jihadismo – Guerre ibride sulla Nuova Via della Seta”, “un alto livello di cooperazione e condivisione d’intelligence tra tutti gli attori che stanno prendendo parte alle operazioni militari”.

Mosul è un nodo commerciale e petrolifero strategico, crocevia di interessi diversi e contrastanti, riflesso delle forze impegnate nella sua liberazione, dall’Esercito iracheno ai peshmerga curdi, dalle milizie sciite iraniane e libanesi ai combattenti addestrati dalla Turchia. Quale bandiera sventolerà o quali bandiere sventoleranno su Mosul?
Il primo ministro iracheno Haider al Abadi ha dichiarato, sin dall’inizio dell’offensiva, che la bandiera irachena sarà issata al centro di Mosul. Sappiamo però che la realtà e i rapporti tra le varie componenti della coalizione sono legate da un filo sottilissimo. Oggi apprezziamo il fatto che milizie peshmerga e irachene combattano contro lo stesso nemico ma la possibile disintegrazione dell’Iraq attraverso spinte separatiste è uno scenario possibile. A queste tensioni si potrebbero aggiungere le contrapposizioni tra Ankara, presente con delle proprie truppe e Teheran, attiva con le sue milizie. È evidente che si deve costruire, sin da ora, una strategia anche politica per il dopo-liberazione di Mosul. Dobbiamo già essere certi su chi entrerà e chi gestirà Mosul dopo la sconfitta dell’Isis.

La liberazione di Mosul non deve dare luogo a vendette settarie e si dovranno creare le condizioni per la stabilizzazione della città per rendere permanente il successo militare.

Venerdì scorso il vice presidente del Parlamento iracheno, Aram Shekh Muhemmed, a Montecitorio, nel corso dell’Assemblea parlamentare della Nato, ha chiesto che l’Iraq venga messo al riparo da ingerenze esterne e riceva quel sostegno umanitario, militare, politico e diplomatico necessario per trovare una soluzione alle difficoltà che ci saranno dopo la liberazione di Mosul.

Che significa per Daesh perdere Mosul?
Mosul è stata la capitale economica dell’Isis, la città dalla quale si è sviluppata la sua strategia fondata sull’amministrazione dei territori sunniti, oppressi nella narrativa dell’Isis, dagli sciiti. È stata anche la città nella quale Al Baghdadi aveva annunciato la nascita del Califfato. Oggi l’Isis ha perso una larga parte dei territori conquistati e non trae più quei vantaggi economici dalla sua economia criminale.

La battaglia di Mosul è quindi propedeutica ad un’offensiva su Raqqa. I successi militari sul terreno pongono due grandi sfide: il ritorno alla vita e alla normalità nei territori liberati e la ricostruzione civile, economica e democratica senza alcuna discriminazione di quelle realtà liberate attraverso l’iniziativa militare.

La ricostruzione è importante quanto le vittorie militari. La sconfitta sul campo non fa venire meno la forza della minaccia che resterà alta e potrebbe contagiare altri Paesi della regione.

L’offensiva contro Mosul potrebbe riaprire le piste di un negoziato di pace in Siria? Con Daesh sconfitto, Mosca e Damasco non potranno più dire che bisogna salvare il regime siriano per evitare la nascita di uno Stato jihadista in Medio Oriente…
Nonostante le profonde divergenze tra Stati Uniti e Russia sui futuri equilibri in Siria, i due Paesi condividono le stesse preoccupazioni circa la minaccia rappresentata dall’Isis e da al-Nusra. È difficile fare una previsione sia per le imminenti elezioni americane sia perché se abbiamo dei dubbi e delle preoccupazioni sui chi entrerà e amministrerà Mosul dopo la liberazione sicuramente nel caso di Raqqa ci troveremo, ad oggi, ad una vera e propria corsa tra attori che hanno obiettivi ben più distanti dei protagonisti dell’offensiva di Mosul.

In questo contesto quale potrebbe essere il futuro dei cristiani in Iraq?

Il tema dei cristiani, così come quello di tutte quelle comunità che rappresentano minoranze, può essere affrontato solamente attraverso la riscrittura delle regole politiche e di convivenza dello Stato iracheno. Regole che necessariamente dovranno porre un argine all’elevata corruzione, al confessionalismo, all’emarginazione dei sunniti e alla polverizzazione dello Stato.

Se queste sfide saranno risolte, si potrà ricostruire un Paese in cui tutti, indipendentemente dalla propria confessione religiosa, potranno ricominciare a vivere e a sentirsi cittadini e partecipi del comune destino del proprio Paese.

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