PapaZenit di Salvatore Cernuzio

Usa il “noi”, Francesco, parlando più da confratello che da Papa ai gesuiti riuniti per la 36° Congregazione generale incontrati oggi nella Curia Generalizia di Roma. Un evento storico per la Compagnia di Gesù, che serve a far memoria di quel legame speciale suggellato dal quarto voto, l’obbedienza diretta al Sommo Pontefice, fortemente voluto da Ignazio e dai primi compagni nel momento della fondazione.

Il neo Preposito generale, padre Arturo Sosa, ha sottolineato infatti che “l’incontro con il Papa non è soltanto un momento di saluto ai congregati, bensì parte integrante della sessione della Congregazione”, quale sorgente di ispirazione per i delegati che riflettono sugli orientamenti universali della Compagnia.

Francesco – che ha voluto partecipare anche alla preghiera comune della sessione del mattino, durante la quale si è ricordato il gesuita olandese Franz van de Lugt assassinato in Siria nel 2014 – ha infatti rivolto un discorso lungo e corposo ai suoi confratelli, durante il quale le esortazioni dei suoi predecessori, da Paolo VI a Benedetto XVI, si sono mescolate agli insegnamenti di Sant’Ignazio e alle raccomandazioni di grandi esponenti della Compagnia come Jerónimo Nadal, Pietro Favre e Pedro Arrupe.

Soprattutto, Bergoglio si è soffermato sui concetti di “giovamento” e “gioia” quali coordinate da seguire per compiere, nell’epoca moderna, il servizio alla Chiesa e al mondorimanendo sempre “liberi, obbedienti, uniti nell’amore di Cristo, per la maggior gloria di Dio”, come auspicato da Montini durante la 32° Congregazione generale.

Parole che il Papa ha ricordato “con particolare emozione”, aggiungendo: “Camminare insieme, liberi e obbedienti, camminare andando alle periferie dove gli altri non arrivano… Il gesuita è chiamato a pensare e vivere in qualsiasi parte del mondo dove è più necessario il servizio di Dio e l’aiuto alle anime”.  Per Sant’Ignazio, questo camminare “non è un mero andare vagando”, ma si traduce in “profitto” e “progresso”, “è andare avanti, è fare qualcosa in favore degli altri”.

“Criterio pratico di discernimento” della spiritualità gesuitica è quello del giovamento, che – sottolinea Francesco – “non è individualistico, è comune”.  “Il fine di questa Compagnia non è solo quello di occuparsi della salvezza e della perfezione delle anime dei suoi membri mediante la grazia divina, ma con la stessa grazia fare in modo di aiutare intensamente alla salvezza e perfezione delle anime del prossimo”.

Per questo Ignazio si arrabbiava se sentiva dire da qualcuno che si sarebbe fermato nella Compagnia perché in tal modo avrebbe salvato la sua anima: “Non voleva gente che, essendo buona a proprio vantaggio, non si sarebbe trovata nella disposizione di servire il prossimo”.

Di fondo esiste infatti una “tensione” verso “la salvezza e perfezione propria e la salvezza e la perfezione del prossimo”. L’armonizzazione di questa “non si dà mediante formulazioni astratte, ma si ottiene nel corso del tempo” attraverso quello che Favre chiamava “il nostro modo di procedere”, cioè “camminando e ‘progredendo’ nella sequela del Signore”, sottolinea il Pontefice.

Ne consegue che “il giovamento non è elitario”. Lo dimostravano Ignazio e i primi compagni il cui “pane quotidiano” era compiere opere di misericordia come “la cura dei malati negli ospedali, l’elemosina mendicata e distribuita, l’insegnamento ai piccoli, il sopportare pazientemente le molestie..”. Questo era il loro “ambiente vitale” e “stavano attenti che tutto il resto non fosse di ostacolo!”, afferma il Papa.

Obiettivo di questo giovamento è dunque raggiungere il “magis”, quel “plus” che non è altro che “il fuoco, il fervore dell’azione, che scuote gli assonnati” e che i santi gesuiti hanno sempre incarnato. Basti pensare a Sant’Alberto Hurtado di cui dicevano che era “un dardo acuto che si conficca nella carne addormentata della Chiesa”.  Questo fuoco è oggi quanto mai necessario contro quella “tentazione” che Paolo VI chiamava “spiritus vertiginis” o De Lubac “mondanità spirituale”, spiega Bergoglio. “Tentazione che – aggiunge- non è, in primo luogo, morale ma spirituale e che ci distrae dall’essenziale: che è essere di giovamento, lasciare un’impronta, incidere nella storia, specialmente nella vita dei più piccoli”.

“La Compagnia è fervore”, diceva Nadal. E per ravvivarlo, il Papa indica tre punti di riflessione. Il primo è “chiedere insistentemente la consolazione” di Dio. Come? Con “gioia”: “La gioia di evangelizzare, la gioia della famiglia, la gioia della Chiesa, la gioia del creato…”. “È compito proprio della Compagnia consolare il popolo fedele e aiutare con il discernimento affinché il nemico della natura umana non ci sottragga la gioia”, evidenzia Papa Francesco. “Che non ce la rubi – raccomanda – né per scoraggiamento di fronte alla grandezza dei mali del mondo e ai malintesi tra coloro che si propongono di fare il bene, né che ce la rimpiazzi con le gioie fatue che sono sempre a portata di mano in qualsiasi negozio”.

“La gioia non è un ‘di più’ decorativo, è chiaro indice della grazia: indica che l’amore è attivo, operante, presente”, chiarisce il Pontefice, tantomeno essa va confusa “con il cercare ‘un effetto speciale’, che la nostra epoca sa produrre per esigenze di consumo, bensì la si cerca nel suo indice esistenziale che è la ‘permanenza’”. Per questo, ricorda il Papa, tale “servizio della gioia” è “radicato nella preghiera”; quindi negli Esercizi che rimangono lo strumento principale per far sperimentare concretamente la consolazione di Dio. “Una buona notizia non si può dare con il volto triste”, aggiunge, e questa gioia dell’annuncio esplicito del Vangelo “è ciò che porta la Compagnia ad uscire verso tutte le periferie”.

Terzo passo da compiere è quindi “lasciarci commuovere dal Signore posto in croce”. “Da Lui in persona e da Lui presente in tanti nostri fratelli che soffrono, la grande maggioranza dell’umanità!”, dice Francesco, perché, come amava ripetere padre Arrupe: “Dove c’è un dolore, là c’è la Compagnia”. In tal ottica, il Giubileo è tempo “propizio” per riflettere sui servizi della misericordia che, annota il Papa, “non è una parola astratta ma uno stile di vita, che antepone alla parola i gesti concreti che toccano la carne del prossimo e si istituzionalizzano in opere di misericordia”.

Bergoglio richiama di nuovo l’esempio di Sant’Ignazio che viveva della “pura misericordia di Dio” e “sentiva che quanto più impedimento egli poneva, con tanta maggior bontà lo trattava il Signore”. Egli liberava “la forza vivificante della misericordia” che invece “noi molte volte diluiamo con formulazioni astratte e condizioni legalistiche”. Invece, “il Signore, che ci guarda con misericordia e ci sceglie, ci invia per far giungere con tutta la sua efficacia la stessa misericordia ai più poveri, ai peccatori, agli scartati e ai crocifissi del mondo attuale che soffrono l’ingiustizia e la violenza”

“Solo se sperimentiamo questa forza risanatrice nel vivo delle nostre stesse piaghe, come persone e come corpo [comunità], perderemo la paura di lasciarci commuovere dall’immensità della sofferenza dei nostri fratelli e ci lanceremo a camminare pazientemente con la nostra gente, imparando da essa il modo migliore di aiutarla e servirla”, afferma Papa Francesco.

E lascia ai gesuiti l’ultima raccomandazione di “compiere il bene di buon animo, sentendo con la Chiesa”. Dunque un “servizio del discernimento” da organizzare “con buon spirito e non con quello cattivo”, “senza perdere la pace” ma portando anzi la Croce, sperimentando povertà e umiliazioni. Questo servizio del buon animo e del discernimento, spiega il Vescovo di Roma, “ci fa essere uomini di Chiesa – non clericali, ma ecclesiali – uomini ‘per gli altri’, senza alcuna cosa propria che isoli ma mettendo in comunione e al servizio tutto ciò che abbiamo”.

Allora, è la sua esortazione, “non camminiamo né da soli né comodi, camminiamo con un cuore che non si accomoda, che non si chiude in sé stesso, ma che batte al ritmo di un cammino che si realizza insieme a tutto il popolo fedele di Dio. Camminiamo facendoci tutto a tutti cercando di aiutare qualcuno”, nella certezza che “questa spogliazione fa sì che la Compagnia abbia e possa sempre avere il volto, l’accento e il modo di essere di tutti i popoli, di ogni cultura, inserendosi in tutti, nello specifico del cuore di ogni popolo per fare lì Chiesa con ognuno di essi, inculturando il Vangelo ed evangelizzando ogni cultura.”.

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