GiovaniStefano De Martis

Gli scandali che investono il mondo dell’economia e della finanza hanno da tempo rubato la scena delle cronache nazionali e internazionali a quelli che toccano primariamente la sfera dell’attività politica. Certo, molto spesso le due dimensioni sono, purtroppo, fortemente interdipendenti. E la diffusione e la rilevanza che questi fatti assumono sono così ampie che nell’opinione pubblica finisce per insinuarsi la convinzione che sia concretamente impossibile fare politica e fare impresa in modo onesto e funzionale al bene comune. Con una sottile quanto pericolosa distinzione: mentre per la politica appare evidente che i responsabili della cosa pubblica almeno in teoria dovrebbero esercitare il loro mandato in modo virtuoso e attento agli interessi dei cittadini, per l’attività imprenditoriale (intesa in senso lato) tutt’al più si chiede che i titolari rispettino norme e contratti e soprattutto paghino le tasse (il che sarebbe già tanto), dando quasi per scontato che debbano perseguire sopra ogni altro obiettivo il proprio interesse particolare, a prescindere da ogni altra implicazione sociale.

In questo intercettando una riflessione che la dottrina sociale della Chiesa ha elaborato da decenni, aggiornandola via via anche ai mutati contesti storici.

C’è una sorta di aforisma di Peter Drucker, economista di fama mondiale scomparso nel 2005, che esprime in modo efficace questi concetti: “Se è vero che non è sufficiente che l’impresa faccia bene, ma deve anche fare il bene, è vero anche che per poter fare il bene deve aver fatto bene”. Lo citano Flavio Felice e Fabio G. Angelini nell’introduzione all’edizione italiana (Etica e business. Un catechismo per chi fa impresa, Rubbettino Editore) di un testo uscito negli Usa due anni fa, una studiata antologia di testi del magistero sociale della Chiesa, curata da Andrew V. Abela e Joseph E. Capizzi, che nel suo insieme fornisce uno strumento prezioso di analisi e di guida.
Felice e Angelini (il primo professore ordinario di dottrine economiche e politiche presso la Pontificia università lateranense, il secondo professore incaricato di costituzioni economiche comparate presso la Pontificia università della Santa Croce)

individuano nel “concetto di inclusione” il “filo rosso” che “lega tutta la riflessione di papa Francesco sulla questione sociale” e che “esprime anche il ponte che unisce il Magistero sociale di almeno tre degli ultimi Pontefici”.

“Inclusione sociale – spiegano i due studiosi – significa, in primo luogo, non ammettere alcuna pretesa rendita, tanto meno monopolistica, su alcuna fonte di reddito e operare affinché nessuna pretesa rendita possa trovare una qualsiasi soddisfazione”. Ma significa anche “educare alla cultura della condivisione e predisporre, a cominciare dal ricorso alle norme di rango costituzionale, un rigoroso sistema istituzionale che impedisca e punisca i tanti o i pochi, e comunque sempre troppi, percettori di rendite di monopolio; che si tratti di rendite politiche, economiche o culturali”. Il concetto di inclusione è utile anche per analizzare la qualità delle istituzioni, che non sono eticamente culturalmente neutre, e per mostrare come “il circolo vizioso delle istituzioni estrattive, che produce ‘caste’ e ‘oligarchie’ in modo ferreo e continuativo e che rende povera la maggioranza di della popolazione per il benessere e il potere di pochi, possa essere spezzato e sostituito dal circolo virtuoso delle istituzioni inclusive”. Ma poiché al centro di tutto, nel bene e nel male, c’è la persona, resta il fatto che “la responsabilità vada sempre ricercata in capo ai soggetti che effettivamente agiscono”. E qui torniamo al tema degli scandali da cui siamo partiti. Per Felice e Angelini non c’è dubbio: la migliore risposta ad essi è “l’emersione di leaderships virtuose in campo imprenditoriale, economico, istituzionale e sociale capaci di generare fiducia e, con essa, di innescare il circolo virtuoso delle istituzioni inclusive”.

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