ViolenzaDi Emanuela Vinai

Solo nel nostro Paese su 4000 decessi legati a questo gesto estremo, il 12% di questi riguarda giovani e giovanissimi. L’ultimo caso di cronaca è avvenuto pochi giorni fa a Torino, uno studente di 18 anni ha preso lo zaino per andare a scuola, ha salutato i genitori e si è buttato dalla cima del palazzo senza alcun motivo apparente, lasciando parenti e amici sconvolti a chiedersi una sola cosa: perché? “Questo è il tema generale della psichiatria, ma non dobbiamo pensare che tutti coloro che decidono di togliersi la vita siano mentalmente disturbati – spiega Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria infantile dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma –. Non conosciamo la causa dei diversi disturbi psichiatrici, ma sappiamo che sono il risultato delle interazioni di fattori biologici, fisici, e fattori ambientali che possono essere più o meno riconducibili a comportamenti altrui”.

I genitori che si trovano a vivere queste tragedie tendono a colpevolizzarsi, per non aver colto in tempo i segnali che covavano o l’elemento di rottura che determina il gesto, ma “non sempre è facile intercettarlo e ai genitori va data tutta la nostra comprensione.

La loro presenza è fondamentale per captare il disagio dei loro figli, ma non sempre è possibile perché chi medita il suicidio è spesso chiuso in sé e raramente comunica le sue intenzioni a qualcuno”. A volte, però, ci sono velate richieste di aiuto. Come “alcuni tentativi di suicidio, maldestri, per ingestione di farmaci non letali, oppure perché è intervenuto un familiare, che magari aveva un sospetto. Però certamente il tentativo c’è, perché i ragazzi con questo atto chiedono aiuto”. Bisogna distinguere le fattispecie, chiarisce il neuropsichiatra: “ci sono due tipo di suicidio. C’è quello programmato, che nasce dall’incapacità di immaginare un futuro diverso dalla situazione contestuale. E poi c’è impulsività adolescenziale: reazione incontrollabile a un fatto, a un momento scatenante”. Per gli adolescenti infatti entra in gioco anche un elemento del tutto diverso rispetto ai meccanismi che muovono le decisioni degli adulti, ed è legato alla biologia. “L’adolescenza è un periodo critico, perché è il momento in cui noi diventiamo adulti – spiega Vicari –. Si ‘salda’ la parte del cervello più antica, implicita, sottocorticale con la parte evolutivamente più recente, i lobi frontali, capace di modulare l’impulsività.

I ragazzi spesso hanno un fisico adulto ma non hanno i meccanismi di filtraggio cognitivo tipici degli adulti, non hanno ancora la capacità di mediazione.

Per questo hanno condotte apparentemente temerarie: semplicemente non sempre sanno valutare le conseguenze delle loro azioni”. Inoltre, se alla base del suicidio premeditato c’è spesso una forma depressiva, una condizione di cui soffre ben l’8% degli adolescenti nel mondo, sarebbe possibile avviare la prevenzione, ma qui la buona volontà si scontra con la cronica carenza di strutture dedicate e adeguate e la mancanza di politiche di sostegno alla salute mentale dei giovani. “Nel nostro Paese mancano i servizi per sottovalutazione – commenta Vicari – perché la rappresentazione che viene data dei bambini è quella del Mulino bianco: tutti belli e tutti felici. Così, se una donna adulta tra i 30 e i 40 anni che ha un disturbo mentale trova luoghi di assistenza, per l’età evolutiva la situazione è drammatica:

in tutta Italia i posti letto dedicati alla psichiatria per adolescenti sono soltanto 90.

Di questi, 8 li abbiamo al Bambino Gesù, dove è attivo un servizio di day hospital specifico e un call center neuropsichiatrico 24 ore su 24”. Un esempio di criticità è dato dall’anoressia: “ormai sappiamo che ha un esordio sempre più precoce, abbiamo in cura bambine di 10 anni, ma non ci sono le strutture adatte. Non si può pensare di applicare a una ragazzina gli stessi standard terapeutici utilizzati per una trentenne”.

Va rivalorizzata la scuola, spiega il neuropsichiatra, che ha un ruolo fondamentale per la prevenzione del disagio mentale:

“È dalla scuola che bisogna essere incisivi, fin dal nido, dalle elementari. È necessario mettere a disposizione strutture educative che stimolino la salute mentale, dare ai ragazzi strumenti culturali di crescita: non si può affidarli alla televisione”.

In un’epoca in cui gli amici sono contatti artificiali dietro uno schermo, un elemento prezioso resta la famiglia, che ha il ruolo “di dare le regole che consentono di essere autonomi, altrimenti si innesca con i genitori una simbiosi che non finisce mai. Oggi i ragazzi non sanno più gestire la frustrazione, c’è sempre un genitore che si sostituisce a loro nei momenti importanti”. In una società che “punta tutto sul successo” e che ci vuole sempre e soltanto vincenti e competitivi per essere accettati “dovremmo educare i nostri giovani al senso della sconfitta, come diceva Pasolini, dando loro gli strumenti per gestirla, accettarla e ricominciare. Ma purtroppo, troppo spesso, manca il tempo”. E dopo è sempre tardi.

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