IndiaDi Patrizia Caiffa

Reshma Qureshi, 19 anni, è una donna indiana sfregiata con l’acido dal cognato per aver difeso la sorella. Ha sfilato venerdì scorso come modella sulla passerella della moda di New York. Anche se ha un occhio cieco e il viso deturpato ha avuto il coraggio di sfidare ogni pregiudizio per sensibilizzare su un fenomeno inquietante: secondo l’organizzazione britannica Acid survivors trust international le aggressioni con l’acido colpiscono ogni anno 1500 donne nel mondo, la maggioranza in India. L’Italia non ne è immune, come testimoniano alcuni tristi casi di cronaca degli anni passati. Negli stessi giorni un tribunale speciale per le donne dell’Alta Corte di Mumbai ha condannato alla pena capitale un uomo che tre anni fa ha gettato due litri di acido solforico sul viso di Preethi Rathi, infermiera 23enne che aveva rifiutato la sua proposta di matrimonio. Ferite che le sono state fatali: dopo un mese di ospedale Preethi è morta ed oggi il padre, un anziano affranto dal dolore, si dice soddisfatto per la pena esemplare. Una condanna che sta facendo discutere l’opinione pubblica indiana, con posizioni diverse. Potrebbe però aprire la strada ad una tardiva presa di coscienza sulla gravità di questi attacchi.

In India stimate tra le 500 e le 1000 aggressioni l’anno. Nella sola India i dati ufficiali segnalano 500 attacchi nel 2015 (altre stime ne contano 1000), in crescita rispetto all’anno precedente. Ma le cifre reali potrebbero essere molto più alte. Le donne che vivono nelle zone rurali o che appartengono alle caste più basse spesso non denunciano, perché non conoscono le leggi o per paura. La maggior parte delle vittime sono state aggredite per aver rifiutato avance sessuali o proposte di matrimonio. Forse per questo motivo, e per cercare l’effetto deterrenza, il Tribunale speciale per i crimini contro le donne di Mumbai ha voluto comminare una pena così dura a Ankur Panwar, 25 anni, che potrà fare ricorso in appello.

La morte di Preethi scosse fortemente l’opinione pubblica indiana, tanto che la Corte suprema ordinò subito dopo di restringere le condizioni di vendita dell’acido nei negozi o mercati. Ora viene chiesto un documento ai compratori e vietato l’acquisto ai minorenni.

Gli attivisti non sono però contenti e chiedono il divieto totale di vendita e pene più severe.

Una questione delicata. I cattolici in India, ma anche alcune organizzazioni per i diritti umani che lottano alla pari contro la violenza sulla donne e la pena di morte, sono in difficoltà nel valutare questa sentenza. Molte tacciono. Si è espresso il portavoce dell’arcidiocesi di Mumbai (Bombay) padreNigel Barrett: “Ci rendiamo conto della gravità del crimine commesso e abbiamo il più grande rispetto per l’autorità giudiziaria – ha detto – ma la Chiesa cattolica ha sempre avuto una posizione ufficiale contraria alla pena capitale. La vita è un dono di Dio e deve essere rispettato sempre”. Anche una religiosa indiana, suor Magdalene D’Silva, ha ricordato che “siamo nell’anno della Misericordia” e chiesto per l’aggressore “una possibilità di pentimento e riabilitazione”. Al contrario, l’attivista per i diritti delle donne Sangeeta Manore Bhure ha detto “che chi commette questi crimini merita una pena così severa”, altrimenti “le persone non capiscono”.  In India la pena di morte per impiccagione viene eseguita raramente, anche se sono 320 i detenuti nel braccio della morte a fine 2015, secondo Amnesty international. 3 persone sono state impiccate dal 2004 al 2014, l’ultima esecuzione risale al 2012.  (dati “Nessuno tocchi Caino”). Anche se l’India ha votato contro la moratoria della pena di morte chiesta dall’Onu nel 2013, spesso le condanne vengono commutate in ergastolo o annullate. L’anno scorso la Law Commission of India ha raccomandato agli Stati l’abolizione della pena di morte, tranne in caso di terrorismo e guerra contro il Paese. Nel 2014 i crimini contro le donne sono stati 322.000, tra cui 37.000 stupri (dati Amnesty).

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