Di Gianni Borsa

Le elezioni regionali nel Meclemburgo-Pomerania premiano Alternative für Deutschland, formazione anti-immigrati ed euroscettica. Dietro lo scollamento tra cittadini e istituzioni le profonde trasformazioni culturali e sociali generate dalla globalizzazione e dall’era digitale. Si impone la ricerca di nuove vie per una moderna democrazia

Spari (a parole) su profughi e accoglienza e vinci le elezioni. Ormai è pressoché una certezza della politica europea. Il filo rosso anti-immigrati congiunge, tra loro, i partiti che vanno per la maggiore in Germania (l’Afd che ha registrato un’impennata di consensi nel voto regionale del 4 settembre in Meclemburgo-Pomerania) come in Francia, in Scandinavia come in Italia, nel Regno Unito come in Polonia, in Ungheria, nei Paesi Bassi, in Grecia e altrove.
Nel land tedesco che si affaccia sul Baltico, con una popolazione inferiore al 2% del totale del Paese e una modestissima presenza di rifugiati, il primo partito si conferma la Spd (30,6% dei consensi ai socialdemocratici, in calo di 5 punti), seguita dalla formazione di estrema destra Afd (Alternative für Deutschland, 20,8%) e dai cristiano-democratici (la Cdu arriva al 19,0%, con un calo di 4 punti percentuali). In forte contrazione la sinistra della Linke (attestatasi al 13,2%), mentre restano fuori dal parlamento regionale sia i Verdi che la destra neonazista Npd.
Il giorno successivo la cancelliera tedesca Angela Merkel, ritenuta la vera sconfitta dal voto locale, si è dichiarata “molto insoddisfatta” dai risultati, pur difendendo la scelta di fondo di aprire le porte del Paese a chi fugge da guerra e fame: “le mie decisioni dei mesi scorsi sulle politiche migratorie sono giuste”, anche se, ha riconosciuto, “non possiamo accogliere ogni anno un milione di profughi”. Sul fronte opposto la “vincitrice”, la leader Afd Frauke Petry, insiste: “La grande coalizione non è più tanto grande” e “la gente non si fida più delle Volksparteien” (Cdu e Spd).Se le si obietta di aver avuto successo in un voto regionale solo sulla base di un tema generale – appunto l’immigrazione – prima smentisce, poi ella stessa fornisce la chiave di lettura del voto, citando la “catastrofica politica dei profughi che domina tutto”.

Il dibattito post-elettorale in Germania è, adesso, in pieno svolgimento: Afd da mesi incassa un successo dopo l’altro nelle consultazioni per i lander mentre le elezioni generali del 2017 si avvicinano. La Merkel sarà, per la quarta volta, la candidata alla cancelleria dei cristiano-democratici? Il dubbio inizia a insinuarsi in un Paese che, come tutti gli altri, strizza l’occhio alle forze anti-stranieri, populiste, nazionaliste. Un Paese dove, peraltro, l’economia vola, i diritti mediamente ben tutelati, la giustizia sociale un elemento di attenzione costante nei governi di coalizione.
Perché – allora – gli elettori sembrano voltare le spalle alla Merkel? Le ragioni non possono ragionevolmente collocarsi in un malessere socio-economico; la democrazia tedesca non è in pericolo; la Germania è un solido pilastro degli equilibri europei e internazionali. È dunque lecito immaginare che se una crisi esiste in Germania, e il dato del Meclemburgo ne rappresenta solo l’ultima spia, si tratta di una crisi politica a tutto tondo. Cresce il solco tra cittadini e istituzioni, tra sentimenti diffusi e istituzioni pubbliche, tra percezione/comunicazione della realtà e realtà stessa. Rispetto a temi e problemi concreti molti (non tutti) fra gli elettori non invocano risposte percorribili e di ampio respiro, ma si accontentano di slogan roboanti che soddisfano la pancia più che il cervello.

E a monte della crisi politica esiste una crisi etica.

Il rapporto io-noi sta mutando, l’individuo viene assolutamente prima della comunità, il mio “orto” va preservato anche se il mondo che ci circonda ne potrebbe negativamente risentire…
In tale contesto, il voto non appare come il punto più alto del senso democratico, come l’apice di una responsabile partecipazione alla costruzione del bene comune, ma il momento in cui “farla pagare” a chi in quel momento è al potere, a qualunque partito appartenga e di qualunque tendenza politica sia. Il cittadino non pretende dal “palazzo” progetti concreti che rispondano a valori condivisi, ma – scrutando internet e alimentandosi con i post su facebook – inneggia a chi butta sul tavolo parole d’ordine preconfezionate e mistificazioni dal fiato corto.
È un malessere che non ha confini. Anche il dibattito italiano in vista del referendum costituzionale d’autunno pare attestarsi su questo crinale. Del resto si può ipotizzare, sbagliando magari per difetto, che siano forse il 5% gli elettori del Belpaese che conoscono realmente la riforma per la quale si voterà;sulla base di quali conoscenze e valutazioni gli italiani si esprimeranno al referendum? Una domanda apparsa anche in relazione al voto inglese per il Brexit e che inquieta gli statunitensi di fronte al fenomeno Trump.

I cardini delle “mature” democrazie, almeno come le abbiamo intese finora, sono probabilmente in bilico: il voto (per chi ancora si reca ai seggi) diviene un atto disgiunto dal protagonismo civico e dalla coscienza democratica popolare. Il Meclemburgo lo ricorda ancora una volta. Alla Germania e all’Europa intera.

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