neonatiDi Fabio G. Angelini

La natalità è un tema di cui si preferisce non parlare. La questione diventa calda, anzi incandescente, solo di fronte alla pretesa di ridurla entro gli stretti confini dell’individualismo e dell’egoismo più esasperato. In tutti gli altri casi la tendenza è ad alzare le barricate contro presunti moralismi e ingerenze religiose. È più o meno quanto avvenuto in occasione del lancio della campagna del Fertility Day, certamente discutibile sul fronte della comunicazione, ma non sul merito.
Che i figli rappresentino per la nostra società una ricchezza dimenticata, è una triste realtà. Al di là di ogni ipocrisia, resta però il fatto che questo modo di affrontare la questione non ci salverà dalle sabbie mobili a cui l’andamento demografico del Paese rischia di condannarci.

La questione è seria e non rinviabile.

L’andamento demografico del Paese sta creando un circolo vizioso e involutivo che comporta ormai da diversi decenni una crescita incontrollata della spesa pubblica cui corrispondono due opposte tendenze: l’incremento della fiscalità e la riduzione dei livelli di protezione dei diritti sociali. Le imprese e i lavoratori sono schiacciati dalle tasse; nello stesso tempo, le garanzie dello stato sociale sono sotto pressione in quanto i bilanci pubblici non sono più in grado di sostenere l’andamento della spesa pubblica. Il risultato è che le imprese chiudono, i nuovi investimenti latitano, la disoccupazione cresce e i cittadini (specie quelli più deboli) stanno sempre peggio. Gli effetti di tale spirale viziosa non sono ancora così evidenti, ma la dinamica dell’equilibrio tra finanze pubbliche e diritti sociali – in assenza di cambiamenti istituzionali capaci di porre vincoli alla discrezionalità del potere governante sul fronte della tutela del nucleo incomprimibile di diritti della persona garantito dalla Costituzione – lascia presagire nubi cariche di pioggia sulla tenuta sociale del Paese.
Anche i flussi migratori che, in questo particolare momento storico, forniscono un contributo fondamentale per la sostenibilità della nostra spesa previdenziale sono null’altro che un pericoloso anestetico capace, nella migliore delle ipotesi, di alleviare il dolore senza però costituire la soluzione al problema.

Da un lato, coloro che oggi versano i contributi previdenziali domani richiederanno una pensione che, tuttavia, risulterà troppo bassa per garantire loro un’esistenza dignitosa; dall’altro, il lavoro degli immigrati risulta per lo più concentrato su settori a bassa produttività.

Senza investimenti in tecnologia e formazione è impensabile aumentare la competitività del Paese innescando una crescita economica in grado di far fronte alla nostra spesa sociale.
In altri tempi, si sarebbe intervenuti sulla leva monetaria ricorrendo all’inflazione, quella “tassa occulta” capace di colpire indistintamente (qualche ricco e molti poveri) al di fuori di ogni garanzia di progressività. È la storia del nostro sistema di welfare, concepito più come strumento di consenso elettorale che come sostenibile strumento di protezione dei diritti della persona secondo la logica sturziana del “servire non servirsi”. Su di esso si sono stratificati nel tempo equilibri politico-istituzionali ed economici perversi, scarsamente inclusivi, poco inclini al cambiamento e fortemente clientelari che, bloccando il Paese,

hanno dato vita ad un’organizzazione sociale sempre più ostile alla natalità e all’idea della famiglia come luogo degno per metterli al modo, accentuando tendenze familistiche e dinamiche corruttive nella nostra cultura.
Il sistema economico generato da tali equilibri è ormai divenuto insostenibile anche per effetto della struttura sociale che ne è derivata. La crescita è stata per lo più il frutto di compensazioni temporanee incentrate prima su svalutazioni monetarie e, oggi, su maggiori consumi e minori risparmi. Si sono così creati gli squilibri e le disuguaglianze su cui si regge il nostro sistema democratico e che risulta ormai incompatibile con la cornice europea, incentrata invece su concorrenza e stabilità monetaria e sulla delega in via sussidiaria agli Stati membri dell’attuazione delle politiche sociali secondo i valori costituzionali propri di ciascun Paese.

Curare gli squilibri del Paese partendo dal riequilibrio fra le generazioni e, anzi, da una loro alleanza capace di includere all’interno di un nuovo assetto istituzionale tutte le diverse componenti della nuova società italiana è di decisiva importanza per ridare fiducia a un Paese bloccato e ripiegato su se stesso. Sono queste le riforme strutturali. Esse richiedono – alla luce dei principi costituzionali di tutela dei diritti fondamentali e di uguaglianza sostanziale – di

ripensare il welfare ponendo al centro delle decisioni di spesa la natalità piuttosto che il calcolo elettorale.

In un Paese dove le coppie spesso rinunciano ad avere dei figli per ragioni economiche o rimandano tale scelta in attesa di una stabilità che è spesso un miraggio, tali politiche potrebbero stravolgere gli attuali equilibri politici, ma il Paese certamente ne beneficerebbe. L’inferno demografico non è poi così lontano, bisogna dunque avere il coraggio di sostenere le famiglie e la loro capacità di trasmettere la vita, riconoscendo nelle prossime generazioni una ricchezza ed un investimento per la crescita del Paese.

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