AziendaDi Luigi Crimella

Alla fine del marzo scorso il governo ha varato un decreto che disciplina l’erogazione dei premi di risultato e la partecipazione agli utili di impresa con una tassazione agevolata. Si tratta della concreta applicazione della norma, contenuta nella legge di stabilità 2016, che prevede particolari agevolazioni: in pratica una imposta sostitutiva del 10% per i premi di risultato e per le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa, entro il limite di 2.000 euro lordi (che però sale a 2.500 euro per le aziende che “coinvolgono pariteticamente i lavoratori nell’organizzazione del lavoro”) in favore di lavoratori con redditi da lavoro dipendente fino a 50mila Euro. Tale decreto si occupa, inoltre, degli strumenti e modalità con le quali le aziende concordano un coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro e anche dell’erogazione tramite “voucher” di beni, prestazioni e servizi di welfare aziendale (ad esempio, servizi di educazione e istruzione per i figli, o di assistenza ai familiari anziani o non autosufficienti, ecc.). Si tratta di

un passo significativo nella direzione della “contrattazione decentrata”,

che investe cioè le singole aziende e non si limita, come finora è spesso avvenuto, ad approvare un contratto nazionale di settore, valido per tutti e piuttosto rigido.

Partecipazione agli utili e premi tassati al 10%. Molto interesse ha suscitato la parte del decreto che riguarda la “partecipazione agli utili dell’impresa”. In questo caso si precisa che il riferimento è agli utili distribuiti ai sensi dell’articolo 2102 del codice civile e che l’applicazione dell’imposta sostituiva del 10% si applica, a determinate condizioni, anche alle somme erogate a titolo di partecipazione agli utili relativi al 2015. In pratica, un provvedimento operativo da subito quest’anno. Per ciò che riguarda i “premi di risultato”, il decreto sottolinea che potranno avere un trattamento fiscale favorevole solo se i contratti collettivi di lavoro aziendali o territoriali prevedano strumenti e modalità di coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro. Il governo ha anche messo a disposizione una somma abbastanza considerevole (344,7 milioni per l’anno 2016, cui seguiranno nei prossimi anni cifre più o meno simili: 325,8 milioni per il 2017, 320,4 milioni per il 2018, 344 milioni per il 2019, 329 milioni per l’anno 2020, 310 milioni per il 2021 e 293 milioni annui a decorrere dal 2022). Questo a riprova della sua volontà di

sostenere questo nuovo “welfare aziendale” che da noi rappresenta – almeno su così vasta scala – una vera novità.

Bisogna infatti considerare che in diverse imprese medio-grandi, o per particolari categorie, ci sono già da molti anni attive forme di welfare quali coperture sanitarie, asili nido, spese per istruzione e aggiornamento, ecc.): ma si tratta, appunto, di casi non sistematici bensì lasciati alla libera trattativa interna, spesso entro multinazionali che hanno trasferito anche in Italia i benefit previsti nella casa madre.

E’ la fine del “welfare universalistico”? Al varo di questo decreto non sono mancate le valutazioni, pro e contro, come c’era da aspettarsi. I più critici fanno notare che così si favorisce la fine dello “Stato sociale universalistico”, cioè uguale per tutti, perché solo le aziende e i territori più svelti e abili riusciranno ad accordarsi coi sindacati per questi provvedimenti. I sostenitori invece argomentano che questa è in realtà un’evoluzione della contrattazione sindacale, cioè un suo miglioramento.

Si tratta di “welfare contrattuale”, seppure a livello-micro (aziendale o territoriale), dal quale derivano ricadute positive sulle aziende che riescono a fidelizzare maggiormente i dipendenti, e sugli stessi lavoratori che si vedono riconosciuti premi vari, senza la mannaia della tassazione finale del 25-30 o fino al 38% che corrisponde al limite dei 50 mila euro.

Insomma, il tipico caso win-win, nel quale tutti “vincono” e nessuno perde (eccetto gli esclusi da questi accordi). Per stipulare accordi di questo genere occorrono protagonisti “illuminati”: imprenditori e dirigenti aperti di mente, che credono negli incentivi ai lavoratori e non li considerano dei lussi; e anche sindacalisti non “rigidi” e novecenteschi, che valutano come “impura” la contaminazione dei lavoratori rispetto alla proprietà del capitale aziendale di cui, in piccolo, cominciano a diventare partecipi beneficiando di parte degli utili prodotti. Ma cosa ne pensano in ambito associativo e sindacale di queste novità? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Scanagatta, segretario generale dell’Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti (Ucid) e a Carlo Costalli, presidente del Movimento Cristiano Lavoratori (Mcl).

Per gli imprenditori è un “piccolo passo”. All’Ucid, Giovanni Scanagatta sottolinea che l’associazione (presieduta da Giancarlo Abete) “segue da tempo questi temi e all’interno di una collana di volumi formativi sulla Dottrina sociale della Chiesa, che edita con la Libreria Editrice Vaticana, ha pubblicato recentemente un libro sul welfare aziendale e sussidiario frutto di un’indagine sul campo in provincia di Torino”. Sul decreto del governo afferma che “è un piccolo inizio, indubbiamente positivo e da far crescere, anche se il vero grosso problema dell’Italia risiede nella sua competitività sui mercati internazionali, basata a sua volta sul costo del lavoro per unità di prodotto. E la nostra produttività, purtroppo, risulta stagnante da una quindicina di anni. Così avviene – prosegue Scanagatta – che le nostre imprese sono costrette, se vogliono mantenere la quote di export, a sacrificare i margini penalizzando la loro capacità di accumulare risorse per innovazione e sviluppo”. Valuta anche positivamente l’accresciuta attenzione da parte del mondo sindacale, anche se – nota – “non tutti i sindacati sono aperti a queste prospettive che richiedono una visione moderna dell’azienda e del ruolo della contrattazione al suo interno”.

Ci voleva “un po’ più di coraggio”.  Anche per il presidente del Mcl, Carlo Costalli, con questo decreto si è fatto un “passettino in avanti”. La valutazione è positiva, in quanto “pur salvaguardando ancora per alcuni criteri la contrattazione nazionale, si apre a nuove forme di contrattazione aziendale”. Tale giudizio positivo riguarda soprattutto i “segnali nella direzione della partecipazione, cosa abbastanza nuova se si considera che viene da un governo a maggioranza di sinistra”. Costalli tuttavia nota che “per come l’avevano pubblicizzato, ci si doveva aspettare qualcosa di più, un po’ più di coraggio”. “Comunque – conclude – mentre notiamo con favore l’attenzione del sindacato, specie della Cisl, per la formazione di sindacalisti capaci di contrattare sul piano aziendale, diamo il benvenuto a questi provvedimenti che aprono a una forma più moderna di welfare che rende il lavoratore più partecipe perchè non si sente più ‘dipendente’, ma ‘collaboratore’”.

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