giornaliDi Nicola Salvagnin

Si dice che il settore dell’editoria sia maturo: parola con accezione negativa, quando la si usa in economia. Significa: ha già dato tutto, ora è in declino. E i numeri non confortano: nel giro di pochi anni i principali quotidiani nazionali hanno perso la metà della loro tiratura, e conseguenti vendite. I settimanali hanno quasi tutti chiuso i battenti, i mensili o hanno detto addio o si sono ridimensionati di conseguenza.

Un’era glaciale, più che una tempesta.

Le aziende editrici hanno fatto fronte prepensionando un terzo della forza lavoro (mentre la categoria dei poligrafici è addirittura in via d’estinzione), tagliando il tagliabile, riducendo foliazioni e redazioni; ma la cosa all’esterno più “visibile” è il vero e proprio terremoto proprietario che ha coinvolto di recente i più grossi nomi dell’editoria italiana.

Aveva cominciato Torino, cioè la famiglia Agnelli.

La prima integrazione è stata quella tra La Stampa e il genovese Secolo XIX. Insomma, il grande gruppo del Nord Ovest, più o meno. Ma quelle sono state solo le prime scosse, rispetto a quanto è accaduto di recente. Gli Agnelli-Elkann – che invece hanno investito pesantemente oltreconfine nell’Economist – hanno deciso di smontare i loro investimenti editoriali in Italia, fonte sì di potere ma anche di grandi perdite economiche: dapprima hanno fatto un patto con l’altro grande editore nazionale (Carlo De Benedetti: gruppo Espresso-Repubblica, Finegil, tre radio…) che è stato visto come una vera e propria ritirata dal fronte. Ora il Gruppo Espresso ha in corpo pure La Stampa, e gli Agnelli-Elkann in cambio hanno ricevuto una quota (assai) minoritaria dell’Espresso stesso.
Ma l’ex real famiglia torinese è (era) appunto anche l’azionista di riferimento della concorrenza: il gruppo Rcs che edita il Corriere della Sera e la rosea Gazzetta. Usiamo il passato perché la decisione presa in contemporanea è stata quella di disfarsi pure delle quote detenute in Rcs, sopportando una grande perdita in bilancio. La Rizzoli Corriere della Sera infatti è da tempo un malato grave: bilanci appesantiti da un debito colossale, la svendita di molti asset (tra cui i libri Rizzoli alla Mondadori e la sede di via Solferino a Milano), gestioni e scelte strategiche discusse e discutibili, una compagine azionaria frastagliata, divisa al suo interno, assai poco propensa a investire nuovi denari dopo aver perso buona parte di quelli iniziali.

La mossa di John Elkann ha innescato insomma un terremoto. Un tempo la proprietà del Corrierone era affare di Stato: si muoveva (pesantemente) la politica, si agitavano i salotti buoni del capitalismo, si creavano cordate e fronti di potere. Un tempo.

Oggi il rimescolamento della sua proprietà ha portato a movimenti di campo ben più modesti. Si è mosso per primo un azionista di Rcs, quell’Urbano Cairo che di mestiere fa appunto l’editore (settimanali popolari, riviste patinate, La7), con un’offerta non strabiliante, ma comunque vox clamans in deserto: ha offerto un concambio azionario, titoli della Cairo Communication in cambio di quelli – assai svalutati – di Rcs. Carta su carta, dicono gli esperti.
Cairo ha alle spalle un’azienda editoriale sana e ben gestita; il valore aggiunto è dato soprattutto dalla sua capacità di far fruttare i cactus. Il resto dei grandi azionisti Rcs ha dapprima abbozzato, poi – tramite la regia di Mediobanca – ha risposto nei giorni scorsi con una controfferta: soldi. Anche in questo caso non tantissimi, ma si tenga conto che chi si prende Rcs, si piglia pure i 400 e passa milioni di euro di debiti pregressi. La mossa del cavallo è stata possibile grazie al coinvolgimento di uno dei finanzieri più liquidi d’Italia, Andrea Bonomi: colui che effettivamente apporterà denari da offrire al mercato e non solo azioni.
Si vedrà come andrà a finire, anche se la notizia che – ripetiamo – un giorno avrebbe scosso i palazzi del potere fin dalle fondamenta, oggi è trattata nelle pagine economiche come una qualsiasi scalata industriale.
E qui si torna alla riga iniziale, al “maturo”.

Mai come oggi informazione è potere. Mai come oggi, però, l’informazione ha così poco valore. Una contraddizione dovuta al cataclisma-internet e al cambiamento repentino delle abitudini dei cittadini occidentali (il fenomeno interessa mezzo mondo).

Le quattro notizie-quattro più importanti del momento, uno le sa pochi minuti dopo che sono accadute, compulsando uno smartphone alla fermata del bus. L’approfondimento? Non c’è tempo, non c’è voglia. Spesso non c’è proprio, con quotidiani quasi interscambiabili tra loro, che ormai sembrano la copia carbone delle cose apparse venti ore prima.
Il problema di internet, come sanno perfettamente gli addetti al settore, è che non genera soldi (gli introiti pubblicitari sono esigui, i sistemi a pagamento scansati come la morte da lettori abituati ad avere tutto gratis). E senza incassi, non si pagano stipendi, non si fa editoria, non si fa giornalismo. Si ricalcano solo le famose quattro notizie-quattro, prese dai notiziari dei telegiornali che ormai vanno in onda 24 ore su 24. Qualche euro li dà certa informazione tecnica – come quella economica –, insomma “pregiata” e che per questo si fa pagare e ci riesce pure.

Soffre meno l’editoria locale, chi racconta quelle cose che internet non riuscirà mai a fare. Ma sono isole, mentre i continenti si stanno riducendo.

Piangersi addosso non fa che aumentare la marea che sommerge l’editoria. La carta rimarrà, così come sono rimasti i libri dopo la rivoluzione degli e-book. Ma, tra una lacrima e l’altra, comunque

serve una profonda revisione del prodotto editoriale.

La cosa scioccante non è la disaffezione, ma quanto questa sia repentina. Se un giornale viene abbandonato in un amen, forse è anche perché era diventato più un’abitudine che un piacere o un bisogno. E per fare buoni prodotti editoriali occorrono ottimi giornalisti con preparazione adeguata, cultura e idee valide. La mediocrità non paga più

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