I discepoli sono chiamati a una creatività ad oltranza – capace di inventarsi persino ciò che prima non c’era – per superare le mille difficoltà umane che impediscono, o rallentano, l’esperienza piena della misericordia, “secondo nome dell’Amore”

Misericordia è “la parola-sintesi del Vangelo”. Questa affermazione, proferita da papa Francesco durante l’Angelus dell’8 dicembre 2015, si può considerare l’asserto fondamentale su cui si impernia il volume “Le opere di misericordia. Centro della nostra fede”, uscito nel marzo 2016 per i tipi della Libreria Editrice Vaticana e già in ristampa (214 pp.). Ciò che il Pontefice insegnava in piazza San Pietro, col suo solito tono sereno e serenante, riecheggia la frase iniziale della Misericordiae vultus: “Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi”. Del resto, sempre nella bolla d’indizione dell’anno giubilare, al n. 10, si parla della misericordia come di un “principio architettonico”

– l’espressione è di mons. Marcello Semeraro, che firma la prefazione del libro di cui qui parliamo -, fondamentale per l’esistenza credente dei discepoli di Cristo: “L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia”.

Il volume è una sorta di centone, che raccoglie le pagine più significative del magistero di Francesco dedicato al tema della misericordia. I brani – selezionati da Giuseppe Merola – sono tratti dai principali scritti del Papa, dalla Evangelii gaudium alla Laudato si, ma pure dai discorsi da lui rivolti ai poveri delle città in cui è stato sinora in visita, ai detenuti, agli ammalati, ai catechisti, ai vescovi, ai suoi collaboratori nei Pontifici Consigli, o ad organismi internazionali coma la Fao, il Congresso degli Stati Uniti, il Parlamento europeo, e dalle meditazioni offerte al momento dell’Angelus ogni domenica e nelle grandi feste liturgiche. Vi ritorna il rimando insistente ai brani evangelici da cui Francesco distilla il lieto annuncio della misericordia, dalla parabola del buon samaritano a quella del figliol prodigo, che egli preferisce ridenominare “del Padre misericordioso”, per giungere all’elenco matteano di quei radicali gesti d’amore – fatti ai “più piccoli” – che hanno ispirato lungo i secoli la tradizione delle opere di misericordia (Mt 25,35-36).

Proprio su queste il Papa concentra l’attenzione, con efficace semplicità catechistica:

“Riscopriamo le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti”.

Per spiegarne il significato, però, ricorre a quelle sue espressioni forti, cui ormai abbiamo fatto l’orecchio e alle quali dovremmo anche adeguare una buona volta la nostra mentalità e i nostri comportamenti:

“Siamo tutti mendicanti”, “globalizzazione dell’indifferenza”, “cultura dello scarto”, “economia dell’esclusione e dell’inequità”, “terrorismo delle chiacchiere”, “autoreferenzialità”, “periferie” verso cui la Chiesa deve “uscire” missionariamente, “cultura dell’incontro”, “far cadere i muri”, “toccare con mano la miseria altrui” e, perciò, “toccare la carne di Cristo”.

Forse si sarebbe potuta includere in questa bella antologia anche un interessante passaggio dell’intervista rilasciata dal Papa nel 2013 a La Civiltà Cattolica, in cui Francesco spiega il senso del proprio motto episcopale – “Miserando atque eligendo”, tratto da un’omelia di san Beda sull’episodio evangelico della vocazione di Levi l’esattore – soffermandosi soprattutto sul senso del termine “miserando”: “Il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando”. L’enfasi riservata a questo inesistente gerundio potrebbe dare l’impressione di evocare il carattere utopico della misericordia. È, invece, un saggio di quella

creatività ad oltranza

– capace di inventarsi persino ciò che prima non c’era – cui i discepoli di Gesù sono chiamati per superare le mille difficoltà umane che impediscono, o rallentano, l’esperienza piena della misericordia, “secondo nome dell’Amore” come leggiamo in un’altra pagina del libro di Francesco.

Non è mera utopia.

È piuttosto speranza paziente, cioè impegno umile per far sì che questo nome “diventi un ruggito in grado di scuotere il mondo”.

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