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Zenit (di Federico Cenci)

MESSICO – “I nostri vicini di casa ci accusano di alimentare la tratta dei bambini, ma noi siamo tutte madri disoccupate che debbono preoccuparsi del proprio futuro”. La testimonianza di Martha Hernandez è il manifesto dell’utero in affitto.

Questa donna fa parte di quella che il Daily Mail definisce una vera e propria “azienda a conduzione familiare”. Lei e le sue tre sorelle, residenti in un decrepito sobborgo di Tabasco, uno Stato del Messico meridionale, provano a sbarcare il lunario offrendo i loro uteri a ricche coppie, spesso omosessuali europee, desiderose di comprarsi un figlio.

La loro storia, ripresa dal quotidiano britannico, è il simbolo dello schiavismo moderno. La globalizzazione non conosce barriere, e nemmeno senso del limite. Ecco allora che i nuovi conquistatori vanno a cercare i loro “eldorado riproduttivi” dall’altro capo del mondo, dove l’indigenza spinge i sottoproletari perfino a vendere sé stessi.

È la logica “dei potenti che per avere più soldi sfruttano i poveri, sfruttano la gente”, per parafrasare Papa Francesco. Un processo che è sempre esistito, ma che assume oggi i tratti inquietanti della tecnoscienza applicata all’uomo e del transumanesimo.

La più grande delle tre sorelle, Milagros, è stata la prima ad inciampare in questo meccanismo crudele che si nutre del desiderio dei ricchi e della disperazione dei poveri. Era il 2013, quando attraverso “un passaparola” prese contatti con una coppia infertile messicana.

Lusingata dalla cifra di 16mila euro che le fu offerta, pari a 20 anni di lavoro come cameriera a Tabasco, non esitò ad accettare la proposta. Il tutto, all’ombra della legalità. In Messico, infatti, è consentita la surrogazione di maternità soltanto se gratuita. La legge viene tuttavia aggirata di consueto. In che modo? Attraverso la corruzione oppure facendo circolare i soldi in nero.

La prima gravidanza su commissione di Milagros le ha lasciato però una ferita nell’anima che difficilmente potrà mai essere rimarginata. La donna racconta che i suoi “clienti”, forse colpiti da rimorsi di coscienza nell’infrangere la legge, l’hanno obbligata ad abortire.

Non meno deprimente la sua seconda esperienza, giacché i “clienti” hanno voluto tagliare ogni contatto tra la mamma biologica e il piccolo. “Ancora mi sveglio nel cuore della notte chiedendomi dove stia e cosa stia facendo”, confida con voce cupa. E poi ancora: “Spero che i miei clienti attuali (una coppia di gay francesi, ndr) mi consentiranno di rimanere in contatto con il bambino una volta partorito”. Non alimenta però alcuna illusione, sapendo che la sua cinica attività non dovrebbe lasciar spazio ai sentimenti: “Bisogna separare se stessi emotivamente dalla gravidanza”.

Facile a dirsi, impossibile a farsi. La stessa Milagros mostra al Daily Mail le foto di un’altra bambina partorita su commissione. Gli “acquirenti” della piccola le mandano periodicamente aggiornamenti. “Sentivo come se fosse mia figlia, nonostante sapessi che mi sarebbe stata portata via – spiega -. Cerco di separare i sentimenti dalla realtà, ma alla fine non c’è niente che possa fare…”.

Milagros racconta che quando le è stata consegnata la neonata dai medici ha riconosciuto subito una somiglianza con lei. “È stata una sensazione molto strana, come se il cervello e il cuore fossero in conflitto”.

Ripercorre i primi tre giorni dopo il parto, durante i quali è rimasta con la piccola per allattarla. “Quando è arrivato il padre voleva passare più tempo possibile con lei, io nel mio cuore mi sentivo gelosa, ma il mio cervello mi diceva di non esserlo”.

Gli occhi di questa povera donna messicana si velano di commozione mentre racconta i momenti in cui la piccola fu portata via: “Per circa un mese dopo la sua partenza fui molto triste. Mi svegliavo la notte sperando di sentire la bambina piangere per me, ma non c’era nessuno…”.

Di nuovo mente sapendo di mentire, Milagros, quando riferisce che i soldi guadagnati valgono di più del dolore che le procura questa attività. È madre, oltre che dei neonati partoriti su commissione, di tre figli. I due più grandi vivono con lei, il più piccolo sta invece con i nonni paterni, i quali si rifiutano di lasciarlo “nello squallore” di questa “azienda a conduzione familiare”.

Squallore a cui ha preso parte da sette settimane, questa la sua fase gestazionale, anche la più piccola delle sorelle Hernandez, la 22enne Paulina. La giovane teme già il momento in cui dovrà separarsi dal piccolo che oggi porta in grembo, per consegnare il “prodotto” ai suoi acquirenti.

Volge lo sguardo verso la sorella più grande, il cui incoraggiamento è goffo quanto il tentativo di presentare questa attività come un normale lavoro. “Continuerò ad affittare il mio utero finché potrò” dice Milagros. Che chiosa amara: “Sto sacrificando il mio corpo per avere un futuro in un Paese in cui nulla è facile”. Ecco il manifesto dell’utero in affitto: la faccia squallida della globalizzazione.

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