mortiDIOCESI – Prosegue la rubrica sulle opere di Misericordia di don Gian Luca Rosati

Leggi i primi sei articoli:
– Don Gian Luca Rosati inaugura una nuova rubrica sulle opere di Misericordia
– “Dare da mangiare agli affamati”
– “Accogliere i forestieri”
– “Dar da bere agli assetati”
– “Assistere gli ammalati”
– “Visitare i carcerati”

Mi è capitato diverse volte di essere cercato da un parrocchiano per benedire l’iniziativa di un gruppo di amici in favore di un altro amico. In questi anni mi è successo di conoscere amici che si mobilitano per i vivi, ma anche per i morti. La solidarietà, l’amicizia, la pietà cristiana, la misericordia si risvegliano in noi al momento opportuno e ci suggeriscono le scelte più umane.

A noi, poi, rimane la libertà grande di ascoltare la voce che ci chiama al bene o di far finta di non sentirla. Ci resta sempre la possibilità di accostare a essa tante buone ragioni fino a zittirla, fino a seppellirla e dimenticarla.

Quando ascoltiamo la voce che ci chiama al bene, ci muoviamo, ci organizziamo, ci mettiamo in gioco e la misericordia di Dio trova collaborazione nelle nostre mani.

Così uno corre a chiedermi di coinvolgere la comunità parrocchiale per aiutare una famiglia in difficoltà, a causa di un grave infortunio del capofamiglia e la parrocchia è esemplare nella generosità e si stringe attorno ai fratelli nel bisogno; viene un altro a dire che con gli amici sta organizzando una colletta per dare una sepoltura dignitosa a un amico, morto senza aver potuto pensare al suo funerale. Viveva da solo, ma era un amico per tanti passanti, una presenza amichevole e sorridente.

L’idea mi piace e mi ricorda che tra noi mortali è possibile un legame immortale, una simpatia che continua anche dopo la morte. Non cammini da solo mentre vivi e non resti solo quando muori: chi ti ha incontrato, chi ti ha amato si muove a compassione e agisce in tuo favore, provvedendo alla tua sepoltura.

Che corrispondenza: sono le mani amorevoli di una mamma, quelle che ci accolgono al nostro ingresso nel mondo; saranno le mani amorevoli di qualche persona di buona volontà, quelle che ci auguriamo ci accolgano al momento della nostra morte.

Mi ha sempre colpito nella lettura della Passione di Gesù la figura di Giuseppe di Arimatea:

50Ed ecco vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, buono e giusto. 51Egli non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Era di Arimatea, una città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. 52Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. 53Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. 54Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato. 55Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, 56poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto. (Lc 23,50-56)

Giuseppe di Arimatea entra in scena e, come Simone di Cirene, fa ciò che è in suo potere, continuando quelle azioni buone verso Gesù (cfr. Mc 14,6), che erano iniziate con l’unzione di Betania nella casa di Simone il lebbroso (Mc 14,8).

Me lo immagino Giuseppe, che va da Pilato, depone con attenzione il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolge in un lenzuolo e lo mette all’interno del sepolcro.

La scena mi riporta al momento della nascita di Gesù: «Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,6-7).

C’è la tenerezza di Maria nei gesti di Giuseppe di Arimatea.

C’è la tenerezza di una madre nel gesto di chi si prende cura del corpo di un morto.

La nascita e la morte sono due momenti in cui il nostro corpo è nelle mani di altri uomini e il pensiero che a quel punto non potremo più dire la nostra, aumenta l’inquietudine generata dal fatto che un giorno moriremo.

 

Se vogliamo vivere nella pace, conviene che ci alleniamo ad aver fiducia nel prossimo: sarà lui, infatti, a prendersi cura del nostro corpo. Il pensiero della morte ci aiuta a impiegare bene il tempo che ci è dato e a dare il giusto valore a quello che siamo e a quello che possediamo. Può essere un esercizio utile quello di immaginarsi ciò che accadrà dopo la nostra morte. Mi lascio aiutare dalle parole di don Francesco Fuschini, un prete con la passione per la scrittura:

 

[…] Mi metto supino nel letto e faccio memoria locale, come consiglia sant’Ignazio di Lojola: ecco, sono morto, mortuus sum; e via quei fiori dal catafalco che da qui si sentono putire come una menzogna. Ogni volta che faccio questo gioco della morte, mi viene in mente Lazzaro di Betania che dal buio varco è passato due volte. Solo mi riesce arduo rifare il momento spaccato in due tra il «prima» e il «dopo», perché è lì che si apre il gorgo in cui rifiata il sentore del nulla; lì si annida l’ultima paura. La mano lunga della fede abbassa il lume su questo vortice di vuoto esistenziale.

Dalla morte-ombra guardo con straordinario interesse il mio funerale. C’è una finestra ritagliata sull’umorismo che l’inquadra tutto. Attorno al carro funebre s’azzuffano le voci delle oranti governate dalla Beata. Dietro quelle voci viaggiano pensieri interessati, vani: pollai, lucidatrici, amori spezzati; è incredibile come un funerale dia ala a tutto il sottosuolo umano. Le consorelle dell’Addolorata mettono in mostra i rilievi naturali stringendo le fasce di seta viola di cui vanno cinte; vengono i contadini, ed è tutto un discorrere di trattori e di anticrittogamici. Baragnòcul non ha posto fermo. Fa la spola dalla testa alla coda del corteo: lui vive la sua ora quando può fare il servizio d’ordine ai morti. La presenza della morte eccita un acuto senso della vita.

L’anarchico lo vedo distaccato e solo: a causa delle gambe che lo servono malvolentieri, ma più per l’orrore di contaminarsi col branco dei credenti. Per tagliare il sospetto alla radice, fuma a pipa calda e scaracchia da oriente a occidente. Recita le sue litanie alla sgherra: «Ste vigliac, sta canaja, st’assasen»: prete vigliacco, prete canaglia, prete assassino; è tutta roba che va al prete, perché a me come uomo l’anarchico vuole un bene forte e romagnolo. È l’ultimo degli anarchici di antica “teologia”.

Intanto gli parlo dal finestrino che guarda la vita: «Fai pure come ti pare, anarchico, ma non la scampi. Ti vedo da qui tal quale ti vedevo da sotto: sei un uomo che cavalca paradossi evangelici; sei un «puro di cuore»: e chi ti salverà dal Paradiso?» (brano tratto da don Francesco Fuschini, L’ultimo anarchico e altri racconti, Edizioni del Girasole).

«La presenza della morte eccita un acuto senso della vita», scrive don Francesco.

Mi rendo conto che è vero: quando mi lascio toccare dalla morte di qualcuno, inevitabilmente mi ritrovo a esaminare come sto vivendo, se mi sto prendendo cura di chi mi sta intorno, se sto dando il giusto peso alle situazioni, se sto impiegando bene i talenti che mi sono stati affidati, se l’incontro con tanti fratelli mi mantiene sulla strada con loro in un atteggiamento di prossimità, o se mi separa da loro come un giudice è distante da un imputato,…

Mio nonno mi raccontava che un tempo i marinai portavano un prezioso orecchino che doveva servire da ricompensa a chi, in caso di naufragio, avrebbe dato sepoltura al loro corpo. Oggi nel partecipare ai funerali e alla sepoltura di parenti o amici, riceviamo molto più di un orecchino: quei morti che accompagniamo ci fanno dono delle loro preghiere, ma anche di un rinnovato senso della nostra vita!

 

 

 

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