PapaDi Fabio Zavattaro

“Destaci dal sonno dell’indifferenza, apri i nostri occhi alle loro sofferenze, e liberaci dall’insensibilità, frutto del benessere mondano”. Duemilacinquecento persone chiuse nel centro di Moria, rifugiati, richiedenti asilo. Molti i bambini, i ragazzi.
Papa Francesco entra nel campo con il Patriarca ecumenico Bartolomeo, con l’arcivescovo di Atene Ieronymos. I profughi non sono numeri, ma volti, persone, storia; uomini e donne con le loro sofferenze, con le ferite dovute a guerre, violenze, privazioni, umiliazione.

Un viaggio diverso dagli altri,

dice il Papa ai giornalisti sull’aereo; viaggio segnato dalla tristezza. Andiamo a vedere tanta gente che soffre e non sa dove andare. È questo lo stato d’animo con il quale ha affrontato la visita Francesco.
Siamo tutti migranti, ricorda Francesco, che percorre lentamente gli spazi del centro, per stringere più mani possibile, per accarezzare volti segnati dalle rughe e dalla sofferenza, volti di bambini, di ragazzi.

Papa Francesco, Bartolomeo I e Ieronymos II al Mòria refugee camp (Lesbo, 16 aprile 2016)

Una donna piange in ginocchio e chiede al Papa di aiutarla. Un uomo con voce rotta dal pianto chiede una benedizione. Non sembra voler smettere di piangere, di chiedere. Poi è un bambino che gli consegna un disegno; ne arrivano altri. “Li porterò con me”, dice Francesco: “Lo terrò sulla mia scrivania”.
Stringe mani Francesco, gesti di tenerezza, di condivisione:

“Siamo venuti per richiamare l’attenzione del mondo su questa grave crisi umanitaria e per implorarne la soluzione”.

E ancora:

“Speriamo che il mondo si faccia attento a queste situazioni di bisogno tragico e veramente disperato, e risponda in modo degno della nostra comune umanità”.

L’arcivescovo di Atene Ieronymos denuncia “le politiche che hanno portato queste persone a trovarsi in questa situazione senza uscita”. E parla di “bancarotta dell’umanità e della solidarietà che l’Europa ha dimostrato in questi ultimi anni a queste persone e non soltanto a loro”.

Persone, non numeri.

Così il patriarca ecumenico Bartolomeo dice: “Abbiamo viaggiato fin qui per guardare nei vostri occhi, sentire le vostre voci e tenere le vostre mani. Abbiamo viaggiato fin qui per dirvi che siamo solidali. Abbiamo viaggiato fin qui perché il mondo non vi ha dimenticato”.

“Non perdete la speranza”, dice loro Papa Francesco.

E i suoi passi nel campo di Moria, sono passi lenti, sofferti; passi che parlano di vicinanza, solidarietà – una parola che fa paura al mondo moderno, aveva detto al Centro Astalli, che accoglie a Roma profughi e richiedenti asilo – che invitano a un impegno concreto verso questi fratelli. In tanti hanno attraversato il mare per raggiungere l’Europa, patria dei diritti.

Ma per molti l’Europa resta un sogno. Lo gridano a Papa Francesco. Gli chiedono di aiutarli a raggiungere i loro parenti, in Germania e in altre nazioni. Di qui l’appello contenuto nella Dichiarazione congiunta firmata dai tre leader religiosi: “Vogliamo contribuire perché venga concessa una accoglienza umana e dignitosa a queste parsone”.

Appello all’Europa perché quella dei migranti è una crisi mondiale, la più grave dalla fine del secondo conflitto che ha insanguinato il Vecchio Continente.

È facile, dice ancora Francesco, “lo sappiamo per esperienza è facile per alcune persone ignorare le sofferenze degli altri e persino sfruttarne la vulnerabilità”.

Ma non sono numeri, questi uomini e donne. La loro sofferenza ci interroga. A tal punto che Francesco, nel viaggio di ritorno a Roma, fa salire in aereo dodici profughi, tutti di religione islamica. Tre famiglie, sei minori.

Prega Francesco al porto, dove lascia in mare una corona di alloro, così come Bartolomeo e Ieronymos.

Lo aveva fatto a Lampedusa luglio 2013. Lo fa qui a Lesbo, memoria per le tante vittime sepolte in questo cimitero che è il mare Egeo. Si rivolge al Signore, il Papa: “Fa’ che, prendendoci cura di loro, possiamo muovere un mondo dove nessuno sia costretto a lasciare la propria casa e dove tutti possano vivere in libertà e dignità”.

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